Prima ancora che il concerto abbia inizio, nelle sale del Magnolia viene diffusa della musica che alterna cori di voci bulgare e arie d’Opera che, pur da assoluto profano, non mi è difficile immaginare siano cantate da Maria Callas. In qualche modo, mentre il pubblico non numerosissimo arriva, preparano l’atmosfera, anticipano a grandi linee i toni di quanto verrà dopo. Volendo, lo stesso si potrebbe dire della performance di Devon Welsh, cantante canadese dalla voce notevolmente estesa, autore ed interprete di un pugno di canzoni intimiste e malinconiche, in larga parte di buon valore per quanto riguarda il lato puramente melodico, ma quasi pari a zero per quello che riguarda il versante musicale, in pratica dei loop che definire basici, se non imbarazzanti, è persino poco, sui quali poi cantare.
Bastano comunque le prime note di Veka perché la sua apparizione venga dimenticata, spazzata subito via dallo spessore di tutt’altro tenore mostrato da Nika Roza Danilova, l’artista americana d’origini russe meglio conosciuta come Zola Jesus. Accompagnata da una violinista e da un chitarrista e con alle sue spalle una postazione dalla quale far partire le parti elettroniche del suo sound, la Danilova ha sorpreso non poco in termini di intensità, estensione vocale e convinzione performativa. Pare quasi impossibile che da quella figura minuta, immersa in un fascio di luci (poche) e ombre (moltissime), possa scaturire un canto lirico e potente di tale vigore.
Messe da parte le tentazioni pop di Taiga, il disco su Mute da cui stasera estrapolerà soltanto Dangerous Days, Zola Jesus è tornata a corteggiare gli scenari ombrosi che l’avevano fin dalle sue prime opere consacrata quale una delle più papabili eredi delle oscure sacerdotesse dark e gotiche. Certo, oggi la sua musica è meno grezza e produttivamente più curata, ma i molti pezzi tratti dall’ultimo Okovi, insieme a quelli dei dischi più vecchi, hanno mostrato che il tentativo di imporsi nel variegato mondo pop e new-soul sia stato accantonato per tornare alle atmosfere conturbanti che le sono più congeniali.
Come il suo ultimo disco, viene fuori uno show che trova la sua anima miscelando melodie tormentate e drammatiche, non prive tra l’altro di un’aura pop, su musiche evocative che alternano, ma il più delle volte mescolano, reminiscenze new wave, electro-pop, suggestioni cameristiche, aggressivi beat di matrice sia dance che noise-industrial.
In bilico tra sacrale solennità – beffardamente esorcizzata da una bestemmia – e intuibile retroterra punk – il protendersi verso il pubblico, lo spiritato vagare sul palco, tanto da arrampicarsi ad un certo punto sulle sue impalcature – Zola Jesus ha saputo toccare le corde giuste, emozionando con una proposta capace, mai come ora, di abbattere le barriere tra ciò che è underground e ciò che è mainstream. Musica sia per l’anima che per il corpo, alla fine, non roba di poco conto.