
Poteva essere un’anonima serata grigia e umida d’inizio febbraio, se al Joshua Blues Club di Albate, piccolo locale che non ha nulla da invidiare ad analoghi club inglesi e americani, con tutta quella esposizione di manifesti, fotografie e cimeli musicali che contribuiscono alla calda atmosfera, non fosse passato Will Hoge, songwriter di Nashville attivo da molti anni e autore di diversi dischi nel segno di un rock americano da strade perdute, molto apprezzato dai reduci del genere.
Quello che si era annunciato come un lunedì sera scuro e senza storia (ad eccezione di un sofferto avvenimento calcistico a una trentina di km dal sobborgo comasco) si è trasformato in un saturday night di sferzante e appassionante rock elettrico, entusiasmo ed empatia, complice pure un parterre di un centinaio di presenti doc, arrivati dalle provincie vicine, da Milano e perfino Torino.
Will Hoge non indugia in virtuosismi, talvolta introduce le canzoni con monologhi di cui spesso si perde il senso per il talking veloce e anfetaminico, ma quando dà il la alla musica, la sua voce aspra e vetrosa e l’intensità della sua performance ti buttano addosso il piacere ancora esistente di storytellers che cantano di small town dreams & desperate days con un suono di genuino blue-collar rock, tipi che per miracolo sopravvivono in un mondo e in un’America tristemente cambiati.
Lo accompagna una band (chitarra, basso, batteria e tastiere nonché fisarmonica), che pare appartenere all’epoca delle terre promesse, perché il chitarrista dalla lunga chioma sembra uscire da una band del Midwest degli anni settanta; il bassista ha l’improbabile aspetto di un travet da ufficio delle entrate che, stanco di cifre e scartoffie, ha preferito il rock e le sue precarietà all’assegno mensile; il batterista è un picchiatore fin troppo sul pezzo e il tastierista, nelle retrovie, cuce gli scampoli di un sound che si fa duro e spietato, ma è anche romantico quando si mette a disposizione delle ballate piene di storie di Will Hoge, uno che non può che aver letto le sacre scritture di John Mellencamp, Tom Petty, John Fogerty, John Prine e, perché no, del caro vecchio Bruce.
Comincia acustico Will Hoge, dando subito l’impressione di possedere belle canzoni nel suo carnet, mai banali e diverse una dall’altra. La sua voce è il fattore che lo distingue dai tanti altri dello stesso girone, un songwriter in grado di descrivere con espliciti riferimenti another story of America e quando scatena la band entrano in scena rumori metropolitani, schegge roots, una spruzzata di country e una verve da vera rock n’roll band. Anche chi era piuttosto a digiuno dei suoi album come il sottoscritto, rimane rapito da un set così sincero, onesto, energico, autentico, perché Will Hoge non si ripete e dopo una ballata che ti fa chiudere gli occhi, sciorina una frustata rock che ti fa cantare il ritornello e ti muove corpo e anima.
Intercetto solo alcuni titoli, e non ne abbiano gli aficionados del personaggio, perché spesso si va ad un concerto per conoscere un nome di cui solo si è lambito l’opera: Little Bit Dreams, Even The River Flows Runs Out Of This Town, The Curse, It’s Just You, The Last One To Go, Cold Night in Santa Fe, Still Got It, queste ultime due a chiusura di un generosissimo e sudato set di quasi due ore.
Dopodiché il Joshua Club è in subbuglio. Will Hoge ha ridato fiato, ancora una volta nella profonda provincia, alla mitologia del follow that dream, e pertanto non può andarsene come uno qualunque: scende dal palco seguito dai suoi pards con gli strumenti unplugged, si siede davanti ad un vecchio pianoforte in fondo al locale, dove per tutto il concerto si sono appoggiati gli spettatori più anziani (di giovani as usual davvero pochi) e regala l’ultima serenata da annotare nel quaderno dei concerti che, per minori che siano, ti cambiano l’umore e ti fanno pensare che non tutto è perduto.