WHITE DENIM
Covo Club
Bologna
19/10/2016
Assistere a un concerto dei White Denim, arrivati la settimana scorsa a Bologna per la loro unica data italiana, significa soprattutto constatare come la figura del produttore, ormai quasi svanita dall’immaginario e dall’orizzonte d’attesa dei pochi, residui consumatori di musica su supporto fisico, sia in realtà ancora determinante per la confezione di un prodotto discografico non viziato dal senso di arbitrarietà e transitorietà purtroppo comune al 90% delle opere oggi immesse sul mercato. Perché, visti dal vivo, i quattro texani, pur divertenti, spediti, virtuosi e, in certi momenti (nemmeno troppo sporadici), persino travolgenti, appaiono essere un gruppo concentrato in modo quasi ossessivo sulla circolarità e l’autosufficienza del proprio gesto esecutivo, e quindi, a tratti, abbastanza lontani da quell’incisività e da quell’umorismo altrove scontornati a dovere, e resi più succinti, proprio da produttori quali Mike McCarthy degli Spoon (dietro al bancone del mixer su D [2011]), Jeff Tweedy dei Wilco (supervisore di Corsicana Lemonade [2013]) o il britannico Ethan Johns (eminenza grigia dietro all’ultimo Stiff [2016]).
Sopra il palco del Covo, ancora una volta non pienissimo sebbene animato da un pubblico adorante, la voce e la chitarra di James Petralli, il basso acrobatico di Steve Terebecki, i tamburi rutilanti di Jordan Richardson (già batterista per Ben Harper) e le tastiere di Mike St. Clair sembrano spassarsela moltissimo a interloquire tra di loro, mentre gli spettatori restano come imbarazzati, non tanto di fronte alla laconica presenza del quartetto (del quale si apprezza, anzi, l’oculatezza verbale), bensì davanti al solipsismo di certi loro sfoghi, alla soggettività di certe lungaggini strumentali, all’intransigenza di una formula dove degli Steely Dan appena convertiti all’hard-rock, o dei Blue Öyster Cult in vena di lepidezze fusion, si cimentano con un rock’n’roll nervoso e stradaiolo, all’occorrenza tinto di ruvido funky.
Già dalle iniziali Real Deal Momma, Ha Ha Ha Ha (Yeah) (finita addirittura in uno spot della Nintendo) e There’s A Brain In My Head, col loro turbinante intreccio di scossoni sudisti, frustate anni ’70, maionese soul, velluti pop e spericolati affondi blues, s’intuisce dove andrà in genere a parare il canovaccio, brillante e flessibile, sì, ma quasi sempre risolto con la cascata di diminuite di piccole jam utili a evocare il fantasma di un Santana grazie al cielo più sporco e febbricitante della media. Il falsetto quasi disco di Take It Easy (Ever After Lasting Love), benché affaticato, resta comunque un piacere per i sensi e per l’intelligenza, e la psichedelia piena di ritmo di una Pretty Green entusiasmante e deliziosamente scalcinata al tempo stesso fa pensare a una versione meno fighetta e patinata dei Tame Impala. E tuttavia, non saprei dire se bastino questi elementi a fare di un concerto dei White Denim un’esperienza irripetibile. Dipende, probabilmente, da quale grado di coinvolgimento siate abituati a chiedere a chi non sa trasmetterlo, e se vogliate, dalla musica dal vivo, la capacità di parlare della vita e celebrarne i sentimenti anziché quella, senz’altro spiritosa, creativa, fantasiosa e tutto quel che volete, di giocarci soltanto.