Sta diventando la prassi, a Milano, avere delle serate in cui ci sono diversi (e in linea di massima tutti potenzialmente interessanti) concerti tra cui scegliere. Prendiamo la sera del 25 ottobre: tolto Sting, che probabilmente a tutt’altro tipo di pubblico si rivolgeva, un appassionato di (indie) rock aveva solo l’imbarazzo della scelta tra gli Afghan Whigs in Santeria, Nilufer Yanya al Magnolia e infine le Wet Leg ai Magazzini Generali.
I primi, nonostante un ottimo album appena uscito, erano probabilmente materia per nostalgici (ma da quello che so, sono andati sold out); la seconda, forse fin troppo sofisticata o ancora troppo poco nota dalle nostre parti (non così all’estero), è quella che, da ciò che ho sentito dire, purtroppo ha raccolto meno pubblico (ma conosco molti che ci sarebbero andati se non fosse stata in contemporanea a…); e le terze, beh, le terze, piaccia o meno, sono indubbiamente una delle band dell’anno e come tali anche da noi, con tutte le debite proporzioni del caso, hanno fatto il botto.
Il sottoscritto, avendo già visto tutti gli artisti citati, alla fine proprio queste ultime ha scelto, basilarmente perché l’altra volta le avevo viste all’aperto ed ero convinto che in una dimensione da club avrebbero funzionato indubbiamente meglio, come in effetti è stato.
Folla da grandi occasioni ai Magazzini Generali, quindi, e fermento anche tra gli addetti ai lavori, come si poteva evincere buttando ad esempio un’occhio nel pit dei fotografi, anche quello bello pieno nonostante l’abbondanza di scelta.
In apertura i giovanissimi Coach Party, band indie-rock come le Wet Leg proveniente dall’Isola di Wight, autrice di un terzetto di EP, dal suono fresco e punkettoso. Se devo essere sincero, essendo lì come fotografo, a parte i pezzi in cui li ho fotografati, non è che sia riuscito molto a sentire quello che facevano, perché a lato palco di fatto si sentiva quasi solo la batteria e un gran rimbombo. A giudicare dalla reazione del pubblico, però, questa band guidata dalla frontwoman Jess Eastwood ha saputo colpire nel segno, entusiasmando un po’ tutti. Io sospendo il giudizio e mi riservo la possibilità d’intercettarli qualche altra volta in futuro.
Arriviamo così alle Wet Leg. I loro detrattori si sono focalizzati sul dire che nella loro musica non c’è nulla di nuovo, che in fondo sono solo delle canzoncine pop che si rifanno agli anni 90, decennio in cui forse non sarebbero neppure state notate, mentre ora attorno a loro si è montato un hype clamoroso e in fondo ingiustificato. Mah, ci sarà anche del vero in alcune di queste posizioni, ma: uno, non basta l’hype per raggiungere con un disco d’esordio la vetta delle classifiche come è successo a loro, in una nazione ricettiva e attenta come il Regno Unito poi, il tutto con un sound chitarristico in un’epoca in cui ogni tre per due ci dicono che la musica con le chitarre è morta; due, semplici canzoncine pop? È proprio la cosa più difficile da fare questa, suonare freschi, melodici e mettere a segno canzoni che ti s’appiccicano addosso e diventano piccoli classici istantanei.
Benedette Wet Leg quindi, che dal vivo sono divertenti, frizzanti, leggere e scanzonate come uno s’aspetterebbe debbano essere. Certo, è vero che alla fine il reale contributo di Hester Chambers, sia alla chitarra che alla voce, è piuttosto limitato, tanto da far sorgere il legittimo sospetto che il tutto sia faccenda soprattutto dell’altra cantante e chitarrista, Rhian Teasdale, qui con simpatico cappellino con orecchie da pipistrello. Ed è anche vero che il sound potente e rugginoso che sentiamo è messo a punto soprattutto dal trio di musicisti che a chitarra, basso, tastiere e batterie le accompagna. Sono cose dall’importanza relativa però, perché quando partono pezzi irresistibili come Being In Love, Ur Mom, Oh No, Angelica e tutte le altre del loro brillantissimo esordio, pensi soltanto a ballare, saltellare e divertirti con alcune delle migliori pepite pop sentite negli ultimi tempi.
Nell’ora scarsa di concerto l’esordio lo suonano quasi tutto, proponendo anche tre pezzi nuovi che hanno saputo mostrare possibili margini d’evoluzione della loro proposta, che non perderebbe di valore neppure se fosse, come molti credono, quella di una meteora. Posta alla fine, Chaise Longue si dimostra quello che in effetti è, un grandissimo pezzo e uno dei singoli dell’anno, in definitiva un brano di cui ci si ricorderà pensando a questi anni in futuro. Il botta e risposta che lo contraddistingue coinvolge tutti e il suo riffettino ficcante allarga il sorriso di chiunque sia presente, e se non sono importanti cose del genere, non so proprio cosa lo siano.