Vinicio Capossela
Milano, Market Sound
29 giugno 2016
Da William Faulkner a John Fante, da Woody Guthrie a Bruce Springsteen, la polvere non è evidentemente un’ossessione solo per massaie, ma anche per scrittori e musicisti, non a caso Vinicio Capossela ha battezzato proprio Polvere uno dei due CD che compongono il nuovo album di studio Canzoni della Cupa e questa prima parte del tour che prevede esibizioni in spazi aperti come il Market Sound, ampia arena estiva situata nella zona ovest di Milano, del resto tappa obbligata per quella che l’artista definisce “…la città delle polveri sottili e della polvere da naso…”.
La polvere che Capossela e la sua fantastica band sollevano nel corso di una concerto straordinario, è decisamente meno dannosa, ma comunque stupefacente, come se si sollevasse dalle campagne dell’Irpinia, dalle backstreets del barrio di Los Angeles e dal deserto dell’Arizona, evocando l’immaginario rurale, il mondo contadino e la tradizione folk da una parte all’altra dell’oceano. L’ampio palco è un campo di spighe ed arbusti, dove si aggirano creature misteriose e mitologiche come La Bestia del Grano, da cui si levano canti di lavoro virati al blues come Femmine o dove si balla con la spensieratezza di una festa di paese sulle note frizzanti di Dagarola del Carpato o di Zompa La Rondinella.
In platea sono allineate ordinate file di sedie, ma l’energia che emana dal palco è troppo potente e contagiosa ed in pochi minuti il pubblico è in piedi per cantare e ballare il repertorio di Canzoni della Cupa che occupa praticamente tutta la prima parte dello show, con brani fatti di equivoci doppi sensi come Franceschina La Calitrana, di divertenti onomatopee come Nachecici, di ombre waitsiane come la livida e bellissima Scorza di Mulo, di ballate notturne come la splendida La Notte di San Giovanni, di gioiose danze messico-americane come Pettarossa o di febbrili tarantelle come Lo Sposalizio di Maloservizio.
A vedere l’entusiasmo e la passione che Vinicio imprime ad una performance al solito molto carismatica e teatrale, vengono in mente le parole del suo libro Il Paese dei Coppoloni «…E così vago tra i suoni. A niente appartengo del tutto, ma m’infebbrano bene quando mi trovano…», perché quello che si sprigiona dal palco è un suono meticcio e contaminato sospeso tra filastrocche e danze popolari, misteriose ballate della tradizione, arie desertiche e passi da festa messicana: una musicalità evocativa e affascinante ordita da un’orchestra che è una via di mezzo tra una banda di paese e un collettivo folk, con il bravo chitarrista Victor Herrero, che non fa rimpiangere l’assenza di “Asso” Stefano al momento in tour con P J Harvey, il contrabbasso del fido Glauco Zuppiroli, la batteria di Mirco Mariani, le percussioni di Agostino “Ago Trans” Cortese e Antonio Vizzuso, i cori e gli strumenti vari di Enza Pagliara e Giovannangelo De Gennaro e le trombe dei Mariachi Mezcal (Sergio Palencia e Angelo Mancini).
Il pubblico applaude e accoglie con calore le nuove canzoni, ma la festa si scatena quando Capossela rivisita i suoi classici a partire dalla carnascialesca Maraja, passando per l’orientaleggiante Che Coss’è l’amor, per la meravigliosa poesia oriunda di Pena de l’alma, per la gioiosa L’uomo vivo, fino alla mascherata vudù di Il Ballo di San Vito, che pare concludere lo show. Richiamato sul palco da un pubblico che non ne ha ancora abbastanza, Capossela intona un’intensissima Camminante, una morriconiana Il Treno, dedicata all’attore Bud Spencer e davvero da brividi, fino al colpo di genio della rivisitazione di La Golondrina, tradizionale messicano ripescato dalla colonna sonora de Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, in un perfetto medley con Ovunque Proteggi. Dopo due ore abbondanti di concerto, c’è tempo solo per i saluti con inchini e manciate di grano lanciate sulle prime file.