D’accordo che nella stessa sera, a Milano e dintorni, c’era sia il nostro Buscadero Day (a cui, per motivi di lavoro, non ho potuto partecipare, ma che verrà sicuramente ben raccontato sulla rivista) e il concerto di Kenny Wayne Shepherd, ma è stato comunque un peccato vedere un Magnolia semi vuoto accogliere la prima data milanese in proprio di Valerie June. A occhio non più di duecento le persone accorse per la bella e brava cantautrice originaria del Tennessee, fortunatamente però tutte motivate e attente, capaci di far sentire il proprio calore e il proprio entusiasmo ai musicisti sul palco.
A giudicare anzi all’entusiasmo dei presenti – del tutto motivato, intendiamoci – c’è da credere che la prossima volta le cose andranno diversamente, perché non solo tutti torneranno, ma probabilmente invoglieranno altri a seguirli. Merito di una performance vibrante e scoppiettante, blend di soul, blues, country, folk (anche nella sua accezione old time) e rock, la stessa miscela che potete trovare nei suoi album.
Attiva fin da quando aveva 19 anni – oggi ne ha 35 – dapprima nel duo Bella Sun (in coppia con l’ex marito, un disco pubblicato nel 2004) e poi in proprio, dopo qualche periodo a girovagare e fare la musicista di strada, la June ha pubblicato ad oggi quattro album, i primi due carbonari e di ardua reperibilità, faccenda ben diversa invece per gli ultimi due su Concord, che non solo le hanno valso collaborazioni con Dan Auerbach, Richard Swift e Booker T. Jones, ma anche il plauso di Barak Obama e consorte, nonché della critica e del pubblico.
Chiusasi la bella performance di Tia Airoldi, cantautore folk/blues che alcuni di voi ricorderanno nei bravi The Please, non passa molto tempo prima che sul palco salga il batterista della band di Valerie June ad introdurre con un rullio di tamburi di gusto jazz il resto della compagine. Oltre a lui – di cui, me ne scuso, non ho afferrato il nome – ad accompagnare Valerie ci sono il bassista e produttore dell’ultimo disco Matt Marinelli, il chitarrista Andy Macleod e il tastierista Dave Sherman. Una band dal suono caldo ed organico, caratterizzata dall’impasto delle chitarre (elettriche quelle di Macleod, elettriche ed acustiche quelle della June, che in qualche occasione ha pure imbracciato the baby, ovvero il suo banjo) e delle tastiere (organo soprattutto), poi ben coadiuvato da un drumming fluido e di sostanza, ben oltre il lineare andamento del puro tenere il ritmo, e da linee di basso piene e vibranti.
Sopra tutto le voce sbarazzina e ficcante della June, naturalmente portata ad evocare i toni di una old time music appalacchiana, così come capace di farsi intensamente soul e passionale. Ci mette qualche pezzo a carburare al 100% Valerie, ma poi, quando sente arrivare il sincero affetto del pubblico, si lascia andare e ci mette tutta se stessa. Con il fisique du role della star – bellissima, con quell’imponente capigliatura rasta a renderla unica – sul palco è divina, ma mantiene quella semplicità e quell’empatia che, prima di salire sul palco, l’avevano portata ad accettare sorridente un selfie con chiunque la intercettasse.
Suona, canta, balla sinuosamente, sorride e si gode il momento, racconta divertita del suo speciale rapporto con Milano – la città dove finì col sposarsi durante un viaggio in Europa, con tanto di esperienza con le nostre pastoie burocratiche – soprattutto dà vita ad una musica con i piedi nel passato (anche remoto), ma per l’ennesima volta rinnovato in modo da essere sensato e significativo oggi.
Ad un certo punto dichiara di amare il punk rock, il soul, il folk, il blues, il gospel, il country e il rock’n’roll, e davvero tutti questi generi potrebbero essere scorti nelle sue canzoni (un po’ meno il punk), pezzi capaci di passare dai toni carezzevoli e avvolgenti di una ballata come Astral Plane, di essere innodici e scoppiettanti come Shakedown, di commuovere con i messaggi in fondo semplici di brani come Somebody To Love, di stuzzicare con brani che sembrano traditional anche quando non lo sono, persino di farsi fangosi ed ipnotici come If And.
Sono solo alcune delle canzoni che Valerie June e band hanno suonato in un’ora e mezza avvolta di magia, dove con poche note ci si è dimenticati del caldo, delle zanzare che pasteggiavano sulle gambe, delle fatiche di una giornata di lavoro, che non era stata simile a quella di braccianti intenti a raccogliere frutta (o cotone), ma alienante lo era stata senz’altro. È il grande potere della musica e di una grande artista chiamata Valerie June. Al Buscadero Day ce l’avrei vista benissimo!