Ad aprire la serata ci pensano i biellesi Seraphic Eyes, power trio rock il cui suono distorto e parecchio anni 90, grunge viene da dire, con tanto di cover dei Nirvana (Aneurysm), non ha disdegnato aperture psichedeliche per cercare d’uniformarsi, così ha detto il frontman Alberto Marconetto, al sound della band per cui erano chiamati ad aprire, ovvero i TOY. Per una mezz’oretta i tre ci hanno dato dentro con passione e grinta, nonostante proprio Al avesse un bel raffreddore che lo aveva costretto a farsi di medicine prima di salire sul palco. Ah, la dura vita dei rocker!
È però il quintetto di Brighton ad aver chiamato la gente ad uscire di casa per venire all’Ohibò stasera, per quella che è la prima delle tre date previste qui in Italia. Sono in giro a far promozione al loro quarto album, l’ottimo Happy In The Hollow, probabilmente il loro disco più maturo e vario, quello che maggiormente ha tentato di distaccarsi dallo shoegaze dei primi dischi, imponendo nello stesso tempo il superamento di quel momento di leggera stanchezza che iniziava a far capolino nel precedente Clear Shot.
Manco a dirlo, sono proprio le canzoni dell’ultimo disco a tenere banco in una scaletta che di tuffi nel passato ne ha comunque proposto ben più d’uno, tra l’altro significativi e ben accolti, nonché in ricognizione su un po’ tutti i loro album. Con due cantanti diversi e un assetto due chitarre, tastiere, basso e batteria, i TOY hanno dato vita ad una bella mescolanza di rock psichedelico, ipnosi ritmica krauta e shoegaze, col consueto senso della melodia tutto britannico a dare una spolverata pop al tutto.
L’aplomb distaccato del frontman vero e proprio, il serafico Tom Dougall, si accorda all’atteggiamento simile del tastierista Max Oscarnold, ma contrasta con il piglio più rock’n’roll del bassista Maxim Barron e dell’altro chitarrista Dominic O’Dair, fornendo un colpo d’occhio, anche per come sono sistemati sul palco, tutti in fila e alternati per tipologia, tutto particolare, completato poi dal batterista Charlie Salvidge dalla capigliatura e dalle basette seventies sullo sfondo.
Momenti più distorti e caratterizzati da un wall of sound di chitarre si alternano ad altri più avvolgenti e dilatati e il trip che mettono in moto senza dubbio ammallia. Se una critica mi viene da fare è quella che le versioni live poco si discostano dalle controparti in studio. Qui e là danno l’impressione di poter partire con un pizzico d’improvvisazione, con qualche allungo che accresca la dimensione psichedelica, ma nulla, nessuno spazio a cose del genere viene lasciato e questo è un po’ un peccato.
Rimangono però nette le canzoni e, a fianco di brani nuovi come Sequence One, Mistake A Stranger o Move Through The Dark, appaiono vecchi classici come Dead & Gone, Motoring, Fall Out Of Love e Join The Dots, ma anche una I’m Still Believing tratta da Clear Shot, che tutte assieme hanno garantito la bontà del concerto.