L’ultima volta che avevo visto i War On Drugs in Italia, sebbene fosse già uscito Lost In The Dream, ad assistere al loro concerto eravamo uno sparuto manipolo di appassionati. Stavolta, in un Fabrique di Milano pienissimo ed usato nella sua interezza, eravamo a migliaia, segno evidente del successo che la formazione guidata da Adam Granduciel ha raggiunto anche da noi. Un successo guadagnato a piccoli passi, senza glamour, senza trucchi, ma solo con la forza di un suono rock che da un certo punto in poi è come esploso. Merito senz’altro di un album straordinario, Lost In The Dream appunto, partito in sordina, ma capace di trasformare la band in uno dei nomi di maggior spicco del momento, una band che, di concerto in concerto, ha visto sempre più accrescere il proprio pubblico fino ai cospicui numeri d’oggi, favorendo il passaggio discografico su una major quale la mitica Atlantic, etichetta per la quale hanno pubblicato il nuovo disco, l’ancora una volta ottimo A Deeper Understanding.
Per il sottoscritto, quello di questa serata era un’appuntamento speciale anche per via dell’apertura affidata ai Barr Brothers, scelta una volta tanto azzeccatissima e in tema! Spero che il suonare prima dei War On Drugs porti la band canadese a farsi conoscere un po’ di più, perché non solo sono ottimi i loro album, ultimo Queens Of The Breakers incluso, ma anche perché sono una live band coi controfiocchi. Forse più classicamente Americana rispetto ai War On Drugs, mostrano comunque personalità da vendere e dal vivo spingono un po’ di più sul loro versante rock, offrendo un suono fortemente elettrico, venato di soul nelle melodie e reso peculiare dalla presenza dell’arpa e da un pizzico d’ipnosi dalle reminiscenze etno nell’andamento ritmico dei loro pezzi. Il loro set dura una quarantina di minuti. Un bell’assaggio di quello che sanno fare, ma prima o poi vorremmo vederli, anche qui da noi, titolari di un concerto tutto loro.
Rapido cambio palco e, alle 21.30 precisissime, i War On Drugs salgono sul palco. Oltre a Granduciel (ovviamente a voce, chitarra ed armonica), ci sono altri cinque musicisti (chitarre acustiche ed elettriche, basso, batteria, tastiere d’ogni tipo e sax). E bastano davvero le prime note di In Chains, il suo fraseggio di piano, il sax e le tastiere che s’infilano direttamente dentro i ventricoli del cuore, il vibrare delle chitarre, il soffio dell’armonica, la poesia di una melodia che arriva direttamente da Springsteen, per far si che la magia abbia inizio. Lo si è detto più volte, le radici di Granduciel stanno tutte nella grande musica americana, quella dei Bruce, dei Dylan, dei Petty: lui è da lì che parte – quando più avanti eseguiranno la folkeggiante Buenos Aires Beach, tratta dal primo album, in un primo momento la scambio per la cover di un pezzo di Bob Dylan – per affrescare poi una musica non definibile in assoluto come nuova, ma molto personale però si, fatta di quelle reiterazioni quasi kraute e quelle dilatazioni ambientali che rendono il loro sound al contempo fisico e sognante, ottenuto (anche) recuperando certe sonorità anni ’80 (ancor prima che le tastiere, il big drum sound), in bilico tra l’intimismo di testi e melodie e un’epica sempre in agguato.
Se infatti è scontato venire spazzati via da pezzi dinamici come Baby Missiles o An Ocean Between The Waves, un po’ meno lo è da una ballata bellissima come Pain, che per l’appunto parte avvolgente e quieta, per crescere poi in volume ed esplodere in un torrenziale assolo finale. Non apprezzano il minimalismo i War On Drugs: il loro suono è invece sempre pieno e saturo, dove chitarre, tastiere e sax si affastellano nel creare imponenti wall of sound, tali da far impallidire quelli del loro possibile modello (la E-Street Band ovviamente), spinti nell’iper spazio da una batteria metronomica e pulsante e da linee di basso sinuose e sguscianti. Ad un terzetto di brani nuovi, suonati curiosamente nello stesso ordine in cui sono su disco (le dolci ballate Strangest Thing e Knocked Down, la più mossa Nothing To Find) fa seguito una sequenza a dir poco straordinaria: dapprima la citata incursione folk con Buenos Aires Beach; poi quella Red Eyes che li ha fatti conoscere al grande pubblico, autentico trionfo chitarristico; quel capolavoro iper dilatato che è Thinking Of A Place, dal vivo ancora più lirica ed intensa; la dylanian/springsteeniana Holding On.
Ci si muove verso il finale. Lost in The Dream dipinge desolati scenari malinconici, spazzati via appena parte il frinire elettronico che apre una Under The Pressure memorabile, raramente sentita eseguita con tale potenza: il break che ha nel mezzo si dilunga più che su disco e dà modo alla band di permettere agli strumenti di crescere, crescere, crescere, fino a quando pensi che non ce la farai più a resistere, che il tuo cuore stia per scoppiare, che la tensione sia ormai insostenibile, fino all’inevitabile esplosione catartica e a quella fuga strumentale che ti ricorda perché il rock sia ancora oggi uno dei rimedi migliori per far fronte alla merda che ogni giorno ci sommerge. Sembra non finire mai questa Under The Pressure e vorresti che fosse così. Lo intuisce anche Granduciel e anziché stopparla, la fa transitare direttamente tra gli scenari ovattati di una luminescente In Reverse.
I War On Drugs abbandonano la scena, ma bastano pochi attimi di continua ovazione che rieccoli lì, sul palco. Ci sono ancora le ultime resistenze da bruciare e allora ecco Burning, rock song a cuore aperto e una You Don’t Have To Go semplicemente emozionantissima, la quale chiude come meglio non si potrebbe due ore ricordabili, senza dubbi, come quelle di uno dei concerti dell’anno.