Ci sono concerti per cui porti a casa un ricordo riguardo alla freschezza della novità oppure all’energia profusa, al romanticismo di un repertorio di artisti che ti hanno “cresciuto” e ti sono entrati nel cuore oppure la brutale forza di un set selvaggio che ti ha lasciato senza fiato, e di questo passo si potrebbero scrivere altre sensazioni personali o generali, ma un concerto della Tedeschi Trucks Band è qualcosa che comprende tutto, è uno spettacolo totale dove la musica sale al piano più alto e regala bellezza, emozioni, bravura tecnica, sentimento ed energia lasciando appagato anche il più critico degli ascoltatori. Il concerto della Tedeschi Trucks Band la sera del 17 aprile al Teatro degli Arcimboldi è stato praticamente perfetto e ha liquefatto di piacere i sentori del numeroso pubblico, accorso a salutare per la seconda volta a Milano dopo il 2017 (ancora grazie Barley) una band unica nel panorama del rock internazionale. Una band di dodici elementi dove ogni parte è fusa nell’altra e dove ogni musicista ha un suo spazio in un collettivo capace di sprigionare un suono ed un groove che amalgamano rock, soul, blues, R&B, jazz, funky, ballads e jam in modo vertiginoso.
Gran mattatore è Derek Trucks con le sue chitarre, in primis la Gibson SG, e quei fraseggi pazzeschi che arrivano alle porte del paradiso cercando sempre la tonalità più alta e acuta come fosse il grido di un albatros in amore. Usa solo indice e pollice, quasi mai i pedali ed entra diretto nel suo ampli così da ascoltarne direttamente il suono, lavora con una accordatura aperta che solitamente si usa per la slide e la tiene così. Non è mai debordante, non è lezioso e non si bea della sua eccelsa bravura, è sempre attento a non perdere il filo della canzone, il suono ed il contorno della band, è un chitarrista che non riempie gli spazi ma aggiunge qualcosa di decisivo al brano con la giusta scelta delle note. Insomma un mostro, l’unico in grado oggi di evocare il gesto di Duane Allman, che come lui non cantava.
Di fianco a lui è cresciuta molto vocalmente la sua compagna Susan Tedeschi che quando la Derek Trucks Band si trasformò in Tedeschi Trucks Band molti indicavano come l’anello debole del team per via di una voce monocorde e tendente al country. Cazzate, l’innesto di Susan ha dato un’altra impronta alla band così da renderla diversa da qualsiasi altro ensemble del genere, l’unico vago riferimento è la carovana di Delaney&Bonnie & Friends tanti anni orsono. La sua voce si è arricchita di chiaro scuri e volubilità, è melodiosa ma quando il brano lo richiede sa essere forte ed infuocata. Il resto dell’orchestra è assemblato come una big band, la sezione fiati (sax, tromba e trombone) è un elogio alle possibili varietà del R&B con l’aggiunta di qualche innesto jazzistico, i due batteristi, complementari, sono uno stantuffo prodigioso che fa venire in mente gli Allman, il basso, le tre voci oltre a Susan ed il tastierista fanno quello che si desidera da una band senza limiti. Con una tale formazione il successo è assicurato e a più riprese, dopo gli assoli di Trucks, i guizzi della Tedeschi, le giravolte con Hammond e piano del nuovo tastierista Gabe Dixon (autore diversi anni fa di un disco a suo nome) in sostituzione dello scomparso Kofi Burbridge, le entrate di sax e trombe, le scorribande dei vocalist, il pubblico preparato e attento si alza in piedi per tributare a questi straordinari musicisti un applauso che mai come in questo caso è parso spontaneo e sentito.
La TTB mi aveva già impressionato due anni fa, questa volta non ha fatto altro che ribadire il concetto che band così è raro sentirne. La differenza l’hanno fatta le cover, una magnifica Down In The Flood di Dylan cantata e da Mike Mattison con quella voce roca e grave, i due tributi allo storico R&B di I Pity The Fool (Bobby Blue Bland) dove Trucks e la moglie si sono divertiti a chiacchierare con le loro chitarre e di More&More (Little Milton), una Shake Sugaree dei Dead appiccicata nel finale di una commovente Angel From Montgomery di John Prine, una pazzesca Soul Sacrifice del Santana di Woodstock che ha mandato in visibilio tutto gli Arcimboldi, il ripescaggio di Don’t Keep Me Wondering dal secondo album degli Allman, cosa che solo un innamorato può fare, e la burrascosa e chiassosa chiusura di I Walk On Guilded Splinters del voodoo Dr.John e Space Captain di Mad Dog and The Englishmen che ha fatto perdere agli Arcimboldi il suo aplomb composto e teatrale.
Basterebbe ciò per andare a casa contenti ma c’è stato molto più, come le grandi performance chitarristiche di Trucks in Do I Look Worried una delle due tracce estratte da Made Up Mind e I’m Gonna Be There del recente album, come l’entusiasmante scambio delle parti in Bound For Glory uno degli highlights del concerto con la corista Alecia Chakour che, autorevole, dà il cambio a Susan dopo che Gabe Dixon con le tastiere ha fatto il bello ed il cattivo tempo e prima che Derek si involi in uno di quegli assoli che fanno lievitare l’anima. Ma non è tutto, c’è il sassofono strapazzato free di Kebbi Williams in Part of Me, c’è Mike Mattison che in Right On Time porta tutti in un club di New Orleans e c’è la sublime ballata Midnight In Harlem, il secondo ripescaggio dal vecchio Revelator, introdotta da Trucks con un suono che pare un sitar e presa per mano dalla Tedeschi che accarezza la Fender e incanta come volesse dedicarci la più dolce e sognante delle ninna nanne. Un unico dispiacere, ma del tutto personale ed irrilevante, l’assenza di Let Me Get By un brano che mi manda ogni volta in giuggiole, presente invece Signs, High Times del recente album, è stata l’apertura di un concerto sontuoso e memorabile che tutti desideravano non finisse mai.