Sbarcati anche in Italia durante un lungo tour che, in due mesi appena, li ha visti battere in lungo e in largo quasi tutto il Vecchio Continente, i Paperhead da Nashville, Tennessee, si sono dimostrati capaci di riscaldare l’atmosfera del ravennate Moog con una miscela di psichedelia, acid-folk e suggestioni beat simili a quanto avrebbero oggi potuto proporre un Pete Townshend fermo al 1966, un Ray Davies prima maniera, dei Love particolarmente narcotici, oppure ancora un John Sebastian accompagnato dai Jesus & Mary Chain.
L’illuminazione scarna, i soffitti bassi del locale e la surreale presenza di una cartina geografica del Sudamerica, nonché la giovanissima età dei musicisti, lasciano pensare che i nostri si esibiscano nella palestra di una qualche high-school, dopo l’ora di ginnastica, ma a dispetto dell’anagrafe i Paperhead, formatisi nel 2009 (col nome The Looking Glass) e con già tre dischi alle spalle, affrontano il (ridotto) palcoscenico con la sicurezza e l’essenzialità dei veterani. Malgrado indossi una t-shirt di Yngwie Malmsteen, il cantante e chitarrista Ryan Jennings è quanto di più lontano si possa immaginare dal paradigma del virtuoso dello strumento interessato solo alle proprie acrobatiche masturbazioni: il suo gesto è veloce, secco, incisivo, perfetto per accompagnare le evoluzioni rockiste di un suono in massima parte costruito sul furoreggiare della sezione ritmica. Sono infatti le vulcaniche linee del basso di Peter Stringer-Hye e i fulmini scatenati sui tamburi da Walker Mimms a condurre le danze, al punto da relegare in un angolo le pur volenterose tastiere di Matt McQueen (apparso abbastanza sacrificato nell’economia della serata) e portare il taglio della band verso una dimensione power-pop di continuo altalenante tra visioni psych e sfuriate hard.
Dal vivo, insomma, i quattro (ma, dati i perenni ancorché inutili tentativi di McQueen di alzare il coefficiente allucinogeno della proposta, sarebbe meglio dire “i tre”) spingono sul pedale dell’acceleratore e del r’n’r, risultando talvolta molto convincenti (per esempio nelle caustiche improvvisazioni di una lunga, deragliante None Other Than) e talvolta un po’ monodimensionali (è il caso di una Eye For Eye stavolta sprovvista del sinistro portamento à la Syd Barrett riscontrabile su album). Il loro show, oltre a certificare la buona fattura dei brani tratti dall’ultimo Africa Avenue (pubblicato pochi mesi fa dalla Trouble In Mind di Chicago), resta spassoso, coinvolgente e sudato; su questo non ci sono dubbi. Tuttavia, dal prossimo giro sarà forse il caso di scrollarsi di dosso tutte le influenze sin qui catalogate, allineate, rivisitate e, spesso, fotocopiate (con passione genuina, inutile negarlo), per introdurre qualche elemento di maggior personalità. Scelta indispensabile se si considera la musica un organismo vivo e in trasformazione; altrimenti, per divertirsi nello spazio di un concerto, vanno benissimo anche le nidificazioni di stili altrui.