Delle tre serate di Milano Rocks – cugino meneghino di Firenze Rocks – quella a cui non bisognava mancare era quella di mezzo, quella dominata dai National e dai Franz Ferdinand, visto che le altre due vedevano come gruppi di punta Imagine Dragons e Thirty Second To Mars, due formazioni decisamente lontane da ciò che dalle nostre parti riteniamo interessante. Per arrivare all’Area Expo – Experience Live si deve percorrere tutto il lunghissimo decumano dell’Expo, cosa che quanto meno permette di rendersi conto di quanto ancora sia pesantemente sottoutilizzata – eufemismo! – una location e una serie di strutture dalle potenzialità enormi. L’area dove si svolgono i concerti è ampia, comoda e ben organizzata, dominata dal grosso palco in fondo e con ai lati i vari bar, punti ristoro, il banco del merchandising e altre cosucce studiate per intrattenere. Tolta l’odiosa presenza dei token da acquistare per poter consumare, davvero nulla su cui eccepire.
Quando raggiungo il posto, la performance della giovane cantautrice romana Mèsa, alla quale era stato affidato il compito di aprire la giornata, è già terminata e quindi non vi posso dire granché. Faccio in tempo invece a beccare i Stella Maris, nuovo progetto guidato da Umberto Maria Giardini, da qualche mese fuori con un buon disco capace di esplorare la vena più rock del cantautore. Le stesse buone vibrazioni vengono espresse da un live che, come sempre accade in queste situazioni, viene però penalizzato dalla dispersività di un palco enorme e dal fatto che anche il pubblico già presente davanti ad esso segue piuttosto distrattamente. Da rivedere in altro contesto.
Tutto cambia quando a salire on stage sono i Franz Ferdinand. Il grosso del pubblico è arrivato – alla fine ho orecchiato numeri che parlavano di oltre 8000 presenze, niente male, se confermati, per gruppi di questo livello – e gli scozzesi partono subito con grinta scaldandolo efficacemente. L’ultimo Always Ascending aveva dato l’impressione di voler ridare slancio al loro sound e la cosa è stata senz’altro confermata da un concerto pulsante e divertente, con Alex Kapranos grande mattatore e frontman grintoso e pimpante. Gli estratti dall’ultimo disco – pezzi come la stessa title-track, Glimpse Of Love, Feel The Love Go e Lazy Boy – dimostrano perfettamente di avere carte da giocarsi anche dal vivo, armonizzandosi perfettamente ai molti estratti dai dischi precedenti, tra cui almeno quattro pezzi dall’amatissimo esordio, chiaramente accolti con particolare entusiasmo. Come di consueto, punk, funk, pop e un pizzico di spolveratura elettronica (anche se il sound rimane preminentemente chitarristico) sono prodromi di una musica che punta soprattutto a far ballare e a scatenarsi. In tal senso, è con brani quali Take Me Out e This Fire che il rito officiato da Kapranos e compagni arriva al suo apogeo, soprattutto nella seconda delle due canzoni, grazie ad una versione dilatata e spettacolare, nella quale l’audience è stata coinvolta attivamente per rendere il momento un’oasi festosa. Una gran bella performance, insomma.
Del tutto diversa la messa in scena orchestrata dai National. Ormai loro li si riesce a vedere solo in grandi arene e grossi festival ma, a mio parere, pochi gruppi soffrono contesti del genere quanto loro. La loro musica, sia pur permeata da un afflato pop che ne ha fatto le fortune, necessiterebbe di spazi intimi e raccolti, anche perché intima e raccolta è essa stessa, in larga parte fatta di ballate avvolgenti, rese particolarmente umbratili dalla voce scura e fumosa di Matt Berninger. All’inizio, infatti, ci mettono un po’ a carburare, con quattro/cinque pezzi tratti dagli ultimi due album tutti più o meno invariabilmente involuti, con parziale eccezione di una Walk It Back dove Bryce Dessner lascia inerpicare verso il cielo la sua sei corde. Poi, con Bloodbuzz Ohio, le cose si sciolgono un po’: i due Dessner si alternano a chitarre e tastiere, solo di tanto in tanto dedicandosi entrambi alle chitarre; in qualche pezzo ci sono le coloriture fornite da una ridotta sezione fiati; Berninger, dal canto suo, pare meno timido, più a suo agio e comunicativo di quanto mi fosse capitato di trovarlo in passato. A un certo punto si butta persino nel pubblico, dialoga con le prime file, offre da bere, si dedica alla ricerca di un abbraccio con i propri fan che pare sia diventato un passaggio necessario per molti artisti. Per quanto i National siano grandi appassionati dei Grateful Dead – ricorderete il monumentale tributo da loro diretto Day Of The Dead – il concerto per loro non è sede dove improvvisare e dove operare cambiamenti o allunghi strumentali alle loro canzoni che, anzi, rimangono praticamente sempre molto simili alle loro versioni in studio. In qualche passaggio, pur nell’evidente eleganza del tutto, espressa soprattutto nei particolari (il raffinato lavoro della sezione ritmica, il ricamo tintinnante delle chitarre, la malinconia di certe parti al piano) questo loro atteggiamento rispettoso nei confronti dei loro pezzi può farli risultare un po’ freddi, con poco slancio, cosa che il cantato monocorde di Berninger rischia di sottolineare. Sono momenti però, perché quando esplodono brani quali Fake Empire, Mr November, Terrible Love e About Today – si, tutti pezzi vecchi e tutti messi in sequenza in chiusura di show – il concerto s’impenna e le emozioni fluiscono senza argini. Il momento che rimarrà probabilmente impresso nella mente di tutti i presenti è però il bis: si è probabilmente superato l’orario in cui poter suonare, ma la band è rimasta visibilmente colpita dal calore del pubblico e non ci sta a lasciarlo così. Tornano allora sul palco e allestiscono una versione praticamente unplugged di Vanderlyle Crybaby Geeks, con le parole cantate in coro da tutto il pubblico in un epifanico momento da custodire nel cuore, autentico e riuscito suggello ad una serata nell’insieme molto bella.