THE MARCUS KING BAND, Legend Club – Milano
Era nell’aria, il nome circolava tra gli appassionati di rock e blues, tra i chitarristi bramosi di assoli al sangue, tra chi non ha dimenticato che il rock n’roll è sostanzialmente una questione di energia, passione, coinvolgimento. E così il Legend, locale alla periferia di Milano, seppure non dotato di grande capienza, si è riempito di curiosi la sera del 3 maggio, accorsi alla prima nazionale di una delle band più promettenti di questo scorcio del 2017. Chi c’era non si è pentito di aver perso una delle semifinali di Champions perché il calcio sarà un divertimento ma il rock n’roll è altra cosa, viaggia ad altezze ben più nobili, è uno spirito che entra nella mente, nel sangue, nella chimica delle emozioni ed è in grado di farti partecipare ad una serata che ti porti a lungo nel cuore.
Certo sul palco ci deve essere qualcosa di diverso dalla normale routine dei concerti standardizzati nei minimi particolari, dove già prima dell’evento si conoscono l’ordine delle canzoni, quale saranno i bis e le cover e cosa diranno i musicisti in scena. No, con la Marcus King Band niente di tutto questo accade e come ha proferito il sassofonista Dean Mitchell al termine dell’esibizione ad un mio amico sotto il palco che gli chiedeva la scaletta dello show «noi saliamo sul palco senza aver deciso nulla in proposito, ogni sera è diversa dalle altre, quello che viene fuori è dettato dall’istinto del momento, a ciò che capita nella serata».
Quindi non dannatevi a trovare le set list della Marcus King Band in rete, il loro spontaneismo è cosa che spiazza e a cui non si è più abituati nel circo di tanto rock programmato e studiato a tavolino. E la notte del Legend ha reso possibile vedere e sentire chi ancora suona con un vigore irrefrenabile, un’energia incontrollata e contagiosa, non cercando di essere perfetti ma seguendo l’istinto, non badando alle intemperanze e al caos sonoro che in qualche frangente ha sovrastato palco e pubblico ma assecondando la libertà di musicisti che creano al momento, che improvvisano il dettaglio e l’insieme mettendo la loro tecnica, in alcuni casi ineccepibile, al servizio di un crescendo bruciante, travolgente, inaspettato. Certo ci possono essere difetti nel loro show, come la difficoltà a scorgere canzoni memorizzabili attraverso refrain e melodie oppure una insistente voglia di sorprendere con la propria bravura, attraverso un assolo, sia di chitarra che di sax o trombe o un cambio di ritmo non previsto, spingendo sempre più in là oltre i margini estremi del rock-blues, verso ardite sonorità jazz che ricordano la furia jazz-rock del Miles Davis elettrico e le dissonanze funky dei Parliament Funkadelic.
Perché la musica della Marcus King Band non è niente di particolarmente definibile, ma è tutto, è un magma informe di rock sudista, qualche frammento sfuggito alle jam degli Allman e della Marshall Tucker Band, molto J J Grey & Mofro, diverso soul, in primis per i toni negroidi e vetrosi della stupenda voce del leader, bravo anche a maneggiare un falsetto non sempre facile, tanto R&B, focoso e arrabbiato, specie nel continuo lavoro del sassofonista ed una valanga di jazz distribuita nelle varie declinazioni del be-bop, con il sax affiancato dagli squarci veementi dell’unico afroamericano della band, il trombettista Justin Johnson. E poi il funky pompato dal bassista Stephen Campbell, le doppie tastiere (piano elettrico e Hammond) del bravo Matt Jennings e lo stantuffo impenitente di un batterista fuori dall’ordinario, uno spettacolo nello spettacolo di potenza e dinamismo quale è Jack Ryan. Infine lui, Marcus King, figlio d’arte, paffuto, sorridente, capelli lunghi, cappellaccio da cacciatore di taglie con tanto di piume infilate nella cinta, entusiasmo da vendere, motore di una band come ne esistono solo nel sud degli Stati Uniti, qualche somiglianza con la Tedeschi-Trucks Band pur con le dovute differenze.
Con la sua chitarra strapazzata allo spasimo nel tentativo di imitare Derek Trucks (peraltro irraggiungibile), con la sua voce roca e densa, espressiva da far paura, la sua animalità, il suo vigore, la sua gioventù, Marcus King è un enfant prodige che cavalca libero e selvaggio nelle praterie del rock-blues senza porsi limiti alla sua ispirazione. Irruente, con pochi momenti di quiete, una ballata in acustico prima dell’encore ed una sola cover (Dear Prudence dei Beatles) Marcus King e la sua band hanno inscenato uno show torrido e vulcanico, saturando di note e suoni una esibizione che in qualche momento ha comportato uno sforzo fisico nel seguirla perché due ore e più in uno spazio stretto e caldo sono un tour de force specie se travolti da un tale scirocco. Ma al di là di questo, l’esibizione della Marcus King Band è la dimostrazione di quanto il rock n’roll o come diavolo volete chiamarlo sia ancora capace di infastidire le certezze e il conformismo, scomodare sensazioni dimenticate, fare piazza pulita di tanto buonismo musicale che oggi rischia di relegare il rock nei musei e nelle tavole rotonde, oltre che mandare a quel paese il luogo comune per cui tecnica e virtuosismo non possano convivere con la spontaneità, l’istinto primitivo, il caos controllato.
Una colata di suoni ha rivoluzionato ciò che si conosceva di Soul Insight e del secondo disco omonimo, le tracce tratte da quei due album (tra le poche riconosciute Ain’t Nothing Wrong With That, Devil’s Land, Rita Is Gone, Virginia, Thespian Espionage) sono state rivoltate come un calzino fino a cambiarne i connotati, signore (in realtà molto poche al Legend) e signori, c’è ancora in giro chi si diverte ad inventare ed inventarsi in un concerto. Di strada ne devono ancora fare, sono giovani e a volte ingenui nella loro esuberanza, ma The Marcus King Band è una forza della natura, un vento caldo che soffia irresistibile e gaudente.