Pare che tutto quello che ci accade nei primi anni di vita, diciamo fino all’adolescenza, finisca per imprimersi direttamente nel nostro DNA per forgiare quasi indelebilmente gli uomini e le donne che saremo nel resto della nostra vita. Ho sempre pensato, e credo siano in pochi quelli che si sentirebbero di smentirmi, che anche le nostre prime scoperte ed esplorazioni musicali abbiano un ruolo speciale nel nostro futuro di ascoltatori. La mia passione per la musica, ad esempio, nacque durante le scuole medie, con le prime cassette scambiate con quell’unico amico che non ascoltava la fuffa allora imperante – cosucce che mi viene l’orticaria solo a ripensarle come Sandy Marton o Tracy Spencer – e grazie ad un professore di matematica/giornalista, un certo Mauro Zambellini, che già allora mi aveva fatto intravedere l’esistenza di un mondo di meraviglie.
Quando uscì l’ultimo album in studio dei Dream Syndicate, nel 1989, io avevo sedici anni e ancora ero alle prese col tentare di completare la mia collezione di album di Springsteen e Mellencamp. Di lì ad un anno, complici qualche soldo in più e la vicinanza, in quel di Gallarate, di un negozio dove trasformare i propri sogni in realtà, partirono però le esplorazioni di cui sopra, i miei primi nomi fuori dai rassicuranti recinti del classic rock e dei nomi storici: ecco allora apparire R.E.M., Sonic Youth, Thin White Rope, Green On Red e, ovviamente, Dream Syndicate.
Scusate questo lungo intro autobiografico, ma i DS non sono ovviamente una band qualsiasi per me. Fin dai primi anni ’90 ho visto Steve Wynn dal vivo miriadi di volte, nelle situazioni e con le formazioni più disparate. In lui ho sempre visto un grandissimo performer, un uomo generoso e dalla gentilezza impagabile, un musicista grande persino nei suoi capitomboli o nei suoi momenti meno ispirati (anche se la sua carriera solista è perlopiù costellata di gran bei dischi). Non avevo ovviamente mancato di esserci le prime due volte che era passato con la sua riformata, storica band dalle mie parti (concerti infuocati e strepitosi), ma stavolta era diverso: con un nuovo, straordinario album nei negozi, c’era da testare nella sostanza il loro essere una band presente nell’oggi e non solo un nostalgico tuffo nel passato, per noi appassionati, come per loro. Inutile dirlo, missione compiuta!
Ad attenderli in questa data al Magnolia, andata come anche le altre in Italia sold out, Steve e compagni trovano oltre 500 super appassionati, a cui bastano i primi sferraglianti accordi di Halloween per far sentir loro il maggior calore possibile. Sia pur intervallati da qualche vecchio brano – la sempre concitata Armed With An Empty Gun, una Burn naturalmente emozionante – sono i pezzi del nuovo disco a conquistarsi la scena nella prima parte di show. Se la qualità del disco vi ha stupito, dovreste sentirli dal vivo! Funzionano tutti a meraviglia, da quell’acida cavalcata chitarristica che è The Circle; passando per la rocciosa 80 West; per l’unica ballata del lotto Like Mary; per la sognante e sixties psichedelica Filter Me Through You; per una straordinaria, ancor meglio che su disco, Out Of My Head, guidata da una reiteratività ritmica di sapore krauto, sul quale far furoreggiare visionarie le chitarre.
Jason Victor è un chitarrista che pare voler tentare una mediazione fra gli spigoli di Karl Precoda e il lirismo di Paul B. Cutler. I suoi fendenti sono supportati da un Wynn in gran spolvero, non solo chitarrista ritmico, ma spesso lanciato lui stesso in ficcantissimi assoli. Dennis Duck è un batterista metronomico e roccioso; col basso pulsante e sempre in primo piano di Mark Walton è forse il vero trademark della formazione, l’elemento inscindibile di un amalgama perfetto.
L’ultimo album, a parte Kendra’s Dream per ovvie ragioni, viene suonato per intero, ed è proprio How Did I Find Myself Here? uno dei momenti topici dello show, quasi un quarto d’ora di improvvisazioni liquide che paiono corteggiare jazz elettrico e psichedelia e dove fondamentali sono pure gli interventi del vecchio amico Chris Cacavas al piano elettrico, musicista mai abbastanza lodato e ospite di tutto questo tour proprio dietro alle tastiere. È inserita in una sequenza di classici tale da tramortire anche un pezzo di ghiaccio: Whatever You Please è una di quelle ballate così pure ed emozionanti da farti quasi piangere; The Medicine Show è completamente riarrangiata e qui si pone in guisa di fuzzato grumo di distorsione; il trittico Forest For The Trees, That’s What You Always Say e The Days Of Wine And Roses è quello che ci vuole per metterci definitivamente al tappeto.
I cinque escono per rientrare subito dopo tra le luci al neon di una Merritville sempre più noir, tra le spire della nuova Glide, tra le note dell’immortale Boston, resa ancora più speciale dall’omaggio, per nulla telefonato, ma anzi assai sincero, a Tom Petty, ricordato tramite l’inserimento di un frammento della sua Refugee. Saremmo alla fine, ma il pubblico non ci sta e i Dream Syndicate tornano fuori ancora una volta. C’è ancora tempo per le stilettate elettriche di The Side I’ll Never Show e per quel delirio di stop & go che da sempre è uno dei loro pezzi simbolo, John Coltrane Stereo Blues.
Cala il sipario e la band si gode l’abbraccio del proprio pubblico nel rituale di foto e autografi. Finito il tour, torneranno in studio per dare subito un seguito all’ultimo album. Noi saremo come sempre qui ad aspettarli. Serata epocale.