Steve Wynn è da sempre una presenza costante sui nostri palchi, sia esso da solo o con qualcuna delle varie formazioni che lo hanno visto protagonista durante gli anni. Le cose non sono ovviamente cambiate da quando ha rimesso in piedi la sua vecchia band, The Dream Syndicate, con la quale non ha mancato di farsi vivo sia col tour della reunion, che con quello del disco che ne ha contrassegnato il ritorno discografico, l’ottimo How Did I Find Myself Here?. Dai primi di maggio sono fuori con un nuovo album e chiaramente non potevano non includere l’Italia nel loro tour europeo, omaggiata addirittura da ben sei date.
These Times è un disco che ha fatto discutere, con una parte del loro pubblico che si è detta delusa per via di presunte aperture elettroniche o comunque a causa di un sound non del tutto in linea con quello classico. Come magnificamente tratteggiava il nostro Mauro Zambellini nella recensione dell’album, These Times è invece un disco importante proprio, anche se non solo, a causa di questi cambiamenti. Se l’album precedente creava un ponte con il passato, questo, se non proprio con il futuro, lo crea con il presente, facendo capire due cose di basilare importanza: Wynn è uno che ha ancora le orecchie ben aperte e sa captare gli umori (non solo musicali) del momento; il ritorno dei Dream Syndicate non è faccenda di pura nostalgia, non riposa sugli allori proponendo sterilmente la musica sempre fatta, bensì è la testimonianza di una band che vuole e riesce ancora ad essere significativa e creativa oggi, innervando il loro naturale tessuto rock di elementi diversi, a volte anche stridenti, ma sempre in funzione di un discorso lucido e calato nella contemporaneità.
Chi voleva un ulteriore riprova che la band è tuttora in un totale stato di grazia (altro che appannamento!) doveva per forza venire a vederli dal vivo. L’unica cosa che mi lascia sempre un po’ perplesso è constatare lo scarso ricambio generazionale nel loro pubblico, in larghissima parte composto da gente con diverse primavere sulle spalle. Non so se è una faccenda puramente italiana, ma in ogni caso a me ha sempre puzzato un po’, mi induce sempre a pensare che le masse di giovani che affollano i concerti spesso lo facciano più inseguendo le mode che non la sostanza. Come che sia, di certo non ne hanno nessuna colpa i Dream Syndicate che, fin dalle prime battute, hanno messo in piedi uno show febbrile e visionario, di quelli che difficilmente si può dimenticare.
La prima parte del concerto è tutta dedicata ai brani degli ultimi album. Il dronante vibrare delle chitarre della The Way In con cui aprono e l’ipnosi krauta di Put Some Miles On che gli piazzano subito dopo arrivano da These Times e appare subito chiaro che le canzoni dell’ultimo disco, livide e con quel piglio vagamente futurista, dal vivo funzionano decisamente alla grande. Grandiosa è stata ad esempio Black Light, un trip reiterativo illuminato da fredde luci al neon, il cui unico difetto è stato quello di non essere stata portata avanti all’infinito, facendoci perdere definitavamente le coordinate spazio temporali. Qualcosa di simile l’hanno fatta con How Did I Find Myself Here che, come già accadeva nello scorso tour, è base sulla quale partire per avventurose improvvisazioni, dove le chitarre di Wynn e di Jason Victor duellano fra loro e dove spunta sbarazzino quell’organetto a là Gravity Talks di Chris Cacavas, ormai membro fisso della formazione, mentre Mark Walton e Dennis Duck imperterriti tengono il tempo manco fossero dei metronomi.
Brani come Bullet Holes o Recovery Mode rendono evidente che i vecchi Dream Syndicate continuano comunque a pulsare anche dentro ai nuovi, mentre pezzi come Filter Me Trough You o Outta My Head hanno in pratica già la statura dei classici. Tutta questa prima parte di show è una sorta di assalto al cardiopalma, con le melodie cantate da Wynn che lottano per emergere dal fumigante muro di chitarre elettriche, perse tra le acide lamine di una psichedelia oscura e il feedback dei bassifondi metropolitani. Ecco allora che a sciogliere la tensione inizia la sequenza di classici – quelli veri, direbbe qualcuno – inaugurata da una Burn da brividi, dove tutto gira alla perfezione e dove ti convinci che questa incarnazione dei Dream Syndicate non abbia proprio nulla da invidiare a quelle del passato. Se l’inossidabile sezione ritmica è quella che abbiamo sempre conosciuto, non si può fare a meno di lodare ancora una volta il lavoro alla chitarra di Victor, ottimo partner per Wynn, con cui divide gli assoli, e capace di mediare tra il minimalismo affilato di Precoda e il lirismo possente di Paul B. Cutler, infilandoci in mezzo la sua personalità.
Una alla volta sfilano Forest For The Trees, That’s What You Always Says, quel martellare punk che è Definitely Clean (non era prevista in scaletta), quel sogno a occhi aperti che è Glide. Sembrerebbe tutto finito, ma Wynn e compagni, generosi e visibilmente contenti di stare sul palco a suonare, tornano con quella ballata intrisa di noir e romanticismo che è Merritville, con una When You Smile capace ogni volta di trafiggere il cuore e con quella See That My Grave Is Kept Clean di Blind Lemon Jefferson che stava su Ghost Stories, qui presentata in maniera divertita dicendo: Ci piace suonare i pezzi del passato, ma non del 1984, 83, 82, bensì del 1918!. Infine una piccola sorpresa: già avvistato nel pubblico durante la serata, viene invitato sul palco quello che da molti anni è un amico di Steve, Manuel Agnelli degli Afterhours (qualche anno fa, proprio questi ultimi fecero da backing band a uno straordinario concerto di Wynn al Bloom di Mezzago). Con lui al piano e Chris ad una terza chitarra suonano una rallentata e toccante Boston, mentre a posizioni invertite chiudono definitivamente il tutto con Tell Me When It’s Over. Non deludono davvero mai i Dream Syndicate e parlando di rock, rimangono sempre tra i più grandi in circolazione.