Era dalla bellezza di otto anni che i Decemberists non tornavano in Italia. L’ultima volta era stato in occasione del tour di The Crane Wife, per un’unica data all’Estragon di Bologna. Unica data anche stavolta, però ai Magazzini Generali di Milano, credo un esordio per loro nel capoluogo lombardo. In questo lungo lasso di tempo, la loro popolarità è nel frattempo cresciuta e anche la loro musica si è evoluta inglobando il prog-rock di The Hazard Of Love, le radici di The King Is Dead e il magnetismo pop e rock dell’ultimo, bellissimo What A Terrible World, What A Beautiful World.
Come era ovvio e giusto che fosse, ad accoglierli stavolta c’era un pubblico caldo e numeroso (il concerto era sold out), che non ha mancato di far sentire la sua presenza e la sua partecipazione ad una delle band più comunicative in circolazione. Preceduti dall’impalpabile performance di Serafina Steer, i Decemberists hanno dato vita ad uno show in cui sono andati a braccetto grande sostanza musicale e divertente intrattenimento, a testimonianza anche in questo del loro essere i piu credibili interpreti di una musica che alla raffinatezza delle trame musicali, non disgiunge la capacità di costruire grandissime melodie pop. Le canzoni della band di Portland, Oregon, come abbiamo già avuto modo di dire, sono sempre memorabili e riconoscibili proprio nell’abbraccio perfetto tra la cristallina e personalissima scrittura di Colin Meloy ed il modo in cui il resto della band sa vestirle di volta in volta, proponendo un suono per nulla univoco ma sempre inesorabilmente dotato di una propria voce. Dal vivo tutto ciò è evidente nel modo in cui si compenetrano l’istrionismo comunicativo di Meloy, con la variegata ricchezza musicale, il cui cuore pulsante sta negli interventi di una bravissima Jenny Conlee (a fisarmonica, organo e piano) e di un Chris Funk chitarrista apparentemente poco appariscente eppure fondamentale nei suoi interventi.
A salire sul palco per primo è Meloy con la sua chitarra acustica; in completo elegante (come saranno anche tutti gli altri) e bicchiere di vino in mano – ed il vino sarà al centro di molte battute sparate durante il concerto – attacca da solo The Singer Adresses His Audience: come su disco il pezzo parte folk, ma man mano che entra il resto della band s’inerpica dalle parti di un rock epico e chitarristico letteralmente da brividi. Da qui in poi, un po’ tutte le anime della band vengono scandagliate, in un continuo su e giù all’interno della loro discografia. Si va così dalla remmiana Calamity Song, al folk scoto-irlandese di Rox In The Box, dalla bellissima ballata indie Here I Dreamt I Was An Architect (stava sul loro primo album), al rock di The Wrong Year, con begli interventi sia da parte della Conlee che di Funk. Senza stare necessariamente a citare tutti i pezzi, indimenticabili momenti dello show sono stati il recupero di un paio di brani – cantati in coppia con una delle due coriste – dell’opera rock The Hazard Of Love (Won’t Want For Love/The Rake’s Song, tra l’altro il passaggio più “duro” della serata); il roots pop “sull’imperialismo americano” 16 Military Wives; la lunghissima, meravigliosa The Crane Wife, qui con tutte e tre le sue parti riunite in un unicum; una A Beginning Song vero capolavoro di scrittura ed atmosfera.
Rimarrebbe da dire del Meloy entertainer: pungola il pubblico con battute e storielle, lo dirige nel battimano e nei cori, in generale si palesa quale personaggio dalla simpatia contagiosa. Da questo punto di vista il momento più divertente è arrivato alla fine, con la picaresca e lunghissima The Mariner’s Revenge Song, quasi un piccolo pezzo di vaudeville, con uno spassosissimo Funk intento a dare il là al pubblico – chiamato a urlare nel momento del testo in cui la balena inghiotte la nave – mimando una sfilata di moda. Davvero impagabile!
Un concerto completo e sfaccettato insomma, una serata di grandissima musica capace di riempire il cuore e di farti uscire col sorriso sulle labbra ed un senso di svagata leggerezza nell’animo. Sono una delle più grandi band in circolazione i Decemberists. Speriamo solo non facciano passare altri otto anni prima di tornare dalle nostre parti.