Quando arriviamo al Magnolia sul palco c’è già Anni B Sweet – pseudonimo della cantautrice di Málaga Ana Fabiola López Rodríguez, quattro album e un buon successo di pubblico in patria dal 2009 a oggi – la quale con la sua band sta mettendo in scena il suo frizzante e melodico indie pop cantato in spagnolo. Sotto il tendone c’è ancora davvero poca gente e per un attimo ci chiediamo: ma possibile che una band come i Temples possa aver fatto un simile flop a Milano, sapendo che la sera prima a Bologna era invece sold out? Per fortuna no, perché per quando la band di Kettering, nel Northamptonshire, arriva on stage, la sala ha finito col riempirsi, pur senza replicare il sold out della sera prima.
Eleganti, magrissimi e capelluti, coi tre membri originari – il cantante e chitarrista James Edward Bagshaw, il chitarrista e tastierista Adam Thomas Smith e il bassista Thomas Edward James Walmsley – c’è il nuovo batterista Rens Ottink, già dietro i tamburi per gli olandesi PAUW e sostituto, per il momento solo come tour member, del dimissionario Samuel Toms, il quale, senza troppi proclami, aveva lasciato la band sul finire del 2018.
Per i Temples il nuovo Hot Motion è stato un modo per ricongiungersi al sound chitarristico dell’esordio, dopo le aperture barocche e tastieristiche di Volcano, un album che tentava un aggiornamento del loro sound, allo stesso modo di quanto fatto da una formazione tutto sommato idealmente affine quale i Tame Impala. In realtà gli inglesi sono decisamente più connessi alla musica sixties psichedelica di quanto non lo siano mai stati gli australiani, tanto che all’ascolto delle loro canzoni l’eco di gruppi epocali quali Kinks o Beatles non manca d’affacciarsi con chiarezza. A renderli qualcosa più che dei semplici passatisti, concorrono però due elementi fondamentali: il primo è la capacità di scrivere grandi canzoni, in moltissimi casi assolutamente memorabili nelle loro fulgide melodie pop; il secondo sta invece nell’abilità nel vestirle con un sound retrò, ma capace d’inglobare suggestioni contemporanee (la centralità del beat ad esempio) o comunque ricombinatorie, dove l’unione d’idee prese un po’ qui e un po’ là, dà comunque vita a qualcosa di riconoscibile come Temples.
La tendenza al pop iper saturo e massimalista che espongono sui dischi, dal vivo vira in qualcosa di più potente e rock, con le chitarre di Bagshaw e Smith ben in vista. Il primo è ovviamente il volto della formazione e con le sue melodie e le sue parti di chitarra (è lui il solista) rappresenta l’anima delle canzoni. Mentre Smith si divide tra sei corde e tastiere, Walmsley e Ottink sono invece il motore, il beat che non arretra mai e fa pulsare pezzi che sono assolutamente perfetti nel garantire una serata di divertimento ad alto tasso vintage.
L’attacco è con la nuova The Howl, ma subito viene dato spazio anche agli altri due dischi, prima con Certainty dal secondo album, poi con A Question Isn’t Answered dall’esordio. In realtà da Volcano arriverà poi soltanto Oh The Saviour, mentre Sun Structures ingaggerà fino alla fine un testa a testa con Hot Motion in quanto a presenze in scaletta. Come già preventivato, le nuove canzoni non sfigurano con i classici e anzi, alcuni grandi momenti dello show arrivano proprio grazie a queste, vedi la stessa Hot Motion, grandiosa ed epica, o la pulsante Holy Horses, giusto per fare un paio d’esempi.
Poi, vabbè, è ovvio che quando sul finale appare Shelter Song l’entusiasmo sia maggiore, così come quando nell’unico bis ci danno dentro con Mesmerise, smettendo finalmente i panni della rock band impeccabile e lasciandosi andare a una lunga improvvisazione psichedelica, con Bagshaw credibile cerimoniere alla sei corde, per un finale davvero trionfale. C’era da esserci, insomma.