TEDESCHI-TRUCKS BAND Alcatraz, Milano 19/03/2017
Mostruoso concerto della Tedeschi-Trucks Band a Milano, candidato già da marzo, per chi scrive, ad essere il miglior set dell’anno se non ci fosse in programma l’esibizione londinese di Tom Petty e i suoi Heartrbreakers. Ma rimaniamo alle attuali fortune, a quello che si è visto e sentito la sera di domenica 19 marzo in un Alcatraz affollato e finalmente all’altezza per quanto riguarda acustica e luci. Merito di un’organizzazione, la Barley Arts, attualmente l’unica a proporre una programmazione di rock e di blues degna di tali nomi, la quale ha riproposto in Italia una band che tanti appassionati di rock e blues attendevano dopo l’annullata esibizione friulana di qualche anno fa causa un improvviso fortunale.
La serata milanese è stata di quelle che si ricorderanno a lungo perché capita di raro di vedere una band così potente, versatile e articolata ed un set in grado di spaziare dal rock al blues, dal soul al jazz, dal R&B al gospel, suonato con una originalità, una bravura tecnica e un’inventiva da lasciare senza fiato. Sono dodici sul palco e non ce n’è uno di troppo, una big band che ha cuore e professionalità, anima e maestria, dettagli e senso dell’insieme. La frontline è appannaggio dell’avvenente cantante e chitarrista Susan Tedeschi, per l’occasione con un vestito corto di lamè argentato generosamente scollato, e di suo marito, lo straordinario enfant prodige Derek Trucks che pur non concedendo niente all’esibizionismo, con la sua fedele rossa SG Gibson, quella che in gergo viene chiamata diavoletto, possiede le chiavi del paradiso per far accedere un pubblico estasiato dai suoi assoli e dai suoi numeri, che da soli fanno capire cosa sia la felicità in termini di musica.
Micidiale, serrato, teso a volte ma splendente quando inventa quel soave e beato rumore elettrico che parte sornione, prima con le mani che vanno su e giù sulle corde a preparare lo scatto e poi si traducono in brucianti assoli che approdano alle sconfinate praterie del cosmo, una saturazione delle note alte che prima di lui solo Duane Allman è stato capace di spiegare col gesto. Certo è difficile oggi scegliere (ma poi perché bisogna scegliere) tra lui e l’amico Warren Haynes visto che entrambi si sono fatti le ossa nella Allman Bros.Band, di sicuro Trucks riesce a raggiungere note talmente celestiali che proprio il compianto Skydog sembra lì, dall’alto, a guardarlo e applaudirlo. Se vi interessa sapere cosa intendo per felicità chitarristica ascoltatevi ad esempio il finale della bellissima Anyhow, una delle tracce, assieme alla mia amata Midnight In Harlem purtroppo omesse nello show milanese (entrambe erano comparse a Zurigo la sera precedente), e capirete di cosa parlo.
Comunque, a parte l’assenza di queste due, lo show è stato ineccepibile e superlativo con Derek Trucks ad accompagnare felice l’intero Alcatraz su un altro pianeta. A fianco dei due coniugi ci sono altri dieci elementi, nessuno superfluo, tutti fondamentali. I due batteristi Tyler “Falcon” Greenwell e J.J Johnson si sommano nel loro essere complementari e sinergici e costruiscono un groove continuo e pulsante che evoca la coppia Jay Johanny Johnson/Butch Trucks, il bassista Tim Lefebvre è uno stantuffo senza un attimo di tregua che sa diventare leader quando gli viene lasciato campo libero spingendo gli altri, per un momento privi di cantanti e coristi, e col solo trombettista Ephraim Owens a soffiare, in un numero di alta scuola hard be-bop sull’esempio del quintetto di Miles Davis del 1966/1967 periodo Tony Williams. Kofi Burbridge è il responsabile di tastiere, piano elettrico e Hammond, e basta il nome (è il fratello del bassista Oteil Burbridge della Allman Bros. Band) per capire quale università ha frequentato.
Kebbi Williams ed Elizabeth Lea, sassofono e trombone, completano la sezione fiati mentre il backing vocale vede Mark Rivers a fianco di Alecia Chakour e Mike Mattison, l’ottimo cantante della fu Derek Trucks Band, in diversi brani alternato a Susan Tedeschi come voce solista. Di questa va detto che non è una cantante fenomenale, anche se la sua interpretazione di The Letter versione Mad Dogs & Englishmen è risultata trascinante per intensità e passione e nemmeno una chitarrista eccelsa, ma la sua presenza scenica e la sua voce, più declinata verso i colori del country che del blues, giustificano un maggior contributo melodico al set e la presenza di sensuali ballate che trasmettono gioia e serenità, come se ci fosse bisogno in mezzo a tanta tecnica, potenza e improvvisazione anche di una pragmatica dolce nota femminile. Susan Tedeschi è molto cresciuta come cantante, dai primi album in cui si faceva fatica a reggerla fino in fondo adesso è diventata una presenza sostanziale che caratterizza la band, basta non fare paragoni ne con Bonnie Bramlett né tanto meno con Janis Joplin.
L’altra virtù della TTB è l’ampiezza del repertorio, materiale proprio e cover si saldano in un tutto unico, il loro set post-allmaniano (in tanti momenti si è avvertito l’eco della storica band, ad un certo punto mi sembrava di sentire qualche passaggio di Whipping Post) ha assorbito la lezione delle recenti jam band, in particolare Widespread Panic e Gov’t Mule, proprio per l’abilità di fondere cover e materiale altrui nel proprio stile, così da farli propri. Non si è dovuto perciò aspettare molto perché le inconfondibili note di Anyday del Clapton di Derek and The Dominos entrassero in scena trascinate dalla voce della Tedeschi e dalla chitarra di Derek “skydog” Trucks e quando lo show era ormai decollato si è potuto godere delle singolari rivisitazioni di Isn’it a Pity di George Harrison, del sontuoso e lunghissimo omaggio a B.B King di How Blue Can You Get e di una Freedom Highway degli Staple Singers da pelle d’oca, dove la sarabanda sonora è stata circoscritta ad un canto gospel di grande emozione.
Il concerto è iniziato puntuale poco dopo le 20 e 30 con la melodica e carezzevole Laugh About It seguita quasi immediatamente dal ritmo ballabile di Don’t Know What It Means, fiati e cori in grande assonanza come in una festa del Mardi Gras, entrambi i pezzi tratti dall’ultimo album Let Me Get By. Ampliati, arrangiati, plasmati da assoli di ogni genere, compreso un sassofono free-jazz proprio nel finale di Don’t Know What It Means, i titoli originali della TTB hanno brillato di una esecuzione live che dimostra la facilità della TTB nell’improvvisare e arrangiare, aspetto esaltato dai trattamenti riservati alle cover nel segno di una dimensione di musica totale dove i musicisti si sbizzarriscono nelle proprie individualità pur rispettando le parti e trovando quell’unisono e quell’amalgama che è propria delle grandi orchestre.
Se l’omaggio a B.B King è suonato come una meraviglia e Get What You Deserve, con la voce vetrosa di Mattison e la lezione di slide del leader, ha recuperato il sincopato e nervoso boogie che era della precedente Derek Trucks Band, allo stesso modo Let Me Get By con cui si è chiuso il concerto prima dell’encore, ha liberato tutta la forza, l’energia e la creatività strumentale e vocale di questa band a 360 gradi.
Il benessere generale che ha investito l’Alcatraz dopo due ore di sballo senza additivi è continuato con un bis ancora più devastante, Right On Time ha portato sul palco una allargata brass band di New Orleans e la lunga jam attorno a Had To Cry Today dei Blind Faith dove i musicisti sono entrati, usciti e ritornati più volte nel memorabile giro basso/chitarra di quell’indimenticabile brano del 1969 cantato da Stevie Winwood, è stata l’apoteosi di un concerto memorabile e di cui si sente già la nostalgia.