Era stata una delle prime sorprese dell’anno che sta volgendo al termine, l’esordio dei londinesi Tapir!, The Pilgrim, Their God And The King Of My Decrepit Mountain, tentativo per questo gruppo di ragazzi messisi assieme nel 2019, cioè poco prima che scoppiasse la pandemia da Covid, di trovare nella musica una via di fuga. Lo facevano con una sorta di narrazione fantasy, che faceva rispolverare termini come rock opera o concept album, senza però che apparisse manco per un attimo la prosopopea tipica di lavori di questo genere. Il disco, piuttosto, si segnalava per l’abilità della band guidata dal cantante e chitarrista Ike Gray, nel costruire una manciata di canzoni in bilico tra indie-folk, art-pop, folktronica e confini.
Dopo le apparizioni estive al Mojotic e all’Ypsigrock, sono tornati ora con un mini tour autunnale, ben quattro concerti, con quello di chiusura proprio all’Arci Bellezza di Milano. La sala non è pienissima, in effetti avrei immaginato un’affluenza maggiore, ma neppure vuota e comunque il pubblico presente, una volta tanto è interamente formato da gente che è lì per ascoltare la musica e non per presenziare a un evento, rompendo le palle per tutto il tempo chiacchierando.
Durante la performance del gruppo – in sei, con Gray a voce e chitarre, Will McCrossan a tastiere e voce, Wilfred Cartwright a batteria e violoncello, Ronnie Longfellow al basso, Tom Rogers-Colman alla chitarra e l’italiana Francesca, credo in temporanea sostituzione dell’assente Emily Hubbard, a electronics e backing vocals – non vola infatti una mosca, facendo in modo che si venga a creare un’atmosfera davvero emozionante, soprattutto nei momenti più quieti.
In maniera più marcata di quanto avvenisse su disco, infatti, la musica dei Tapir! si profila decisamente più comunicativa, diretta, emozionale, tanto da indurmi a paragonarli, più che all’indie folk di formazioni come Mumford & Sons e simili, all’epopea del cosidetto New Acoustic Movement o ad alcune cose di band come i primi The Dodos o i Two Gallants (e questo nonostante quelli fossero entrambi dei duo).
Ad ogni modo, il repertorio di The Pilgrim… appare più avvolgente e dolce, con Gray a rivelarsi cantante ben più espressivo di quello che avrei detto, spesso intento a fare ricorso a un falsetto gestito con grande naturalezza. In realtà, non pochi, poi, sono i brani nuovi infilati in scaletta, ben cinque, i quali probabilmente hanno contribuito non poco, con la loro bellezza immediata, a darci l’idea di un evoluzione che promette fin d’ora ottime cose.
Performance concisa, sotto l’ora, ma emozionante, con splendido finale, nel bis, con l’eccelsa Mountain Song, perfetta per chiudere lo show, con la stessa forza con la quale chiudeva il disco. Sarà il caso di continuare a tenerli d’occhio.