In un’intervista risalente al 2016 scovata su YouTube, ad un certo punto l’intervistatore chiede a Michael Gira se c’è qualche disco contemporaneo a cui s’è particolarmente appassionato. Gira lo guarda di sottecchi e gli confessa che non ce ne sono, visto che da sette anni dedica tutte le sue energie agli Swans, in incessanti tour interrotti solo da altrettanto impegnative sedute di registrazione. Una dedizione assoluta che lo lascia stremato e che gli concede al massimo lo spazio per dedicarsi ad ascolti di musica straordinariamente quieta. E mai contemporanea, aggiunge.
Chiunque abbia assistito ad un concerto degli Swans del post reunion, partita con la pubblicazione di My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky e proseguita con i tre doppi album The Seer, To Be Kind e The Glowing Man, sa bene che il leader della formazione americana non millanta. Definita giustamente “la più gloriosa reunion di sempre”, forse l’unica ad essere significativa come e forse più della prima fase storica, la parabola di questi Swans, come si sa, sta giungendo al termine, almeno così ha annunciato lo stesso Gira. Hanno una fitta serie di date programmate fino a fine anno e poi ci sarà lo sciogliete le righe, la band continuerà, ma a fianco di Gira ci saranno nuovi protagonisti e nuove idee musicali messe in campo.
Del resto, per chi, come me, in questi ultimi anni ha seguito le loro mosse discografiche e ha avuto modo di vederli dal vivo almeno una decina di volte, è difficile immaginare un’ulteriore evoluzione da parte di questi Swans. Il clima confrontazionale, ottundente, persino di continua sfida e provocazione tra i musicisti sul palco (con Gira gran cerimoniere dai modi tutt’altro che accomodanti per ottenere il risultato voluto), col tempo ha iniziato a mutare in maniera sottile, lasciando emergere con più forza e forse addirittura un velo di malinconia l’afflato spirituale che, in fin dei conti, ne ha sempre caratterizzato le intenzioni.
Con alle spalle un disco come The Glowing Man – che questa spiritualità e questa malinconia le aveva impresse nel suo dna – i nuovi show sono ancora una maratona di resistenza, per i musicisti e per il pubblico, ma hanno in tutto e per tutto l’aria di configurarsi come un ciclo di morte e rinascita, come il naturale compimento di un percorso che ha investito dischi, concerti, anime.
L’innesto del tastierista Paul Wallfish – al posto del multistrumentista Thor Harris – qualche equilibrio l’ha ulteriormente mutato, specie quando il suo piano elettrico ricama aciduli fraseggi quasi jazz a contrappuntare i blocchi di suono degli altri. Anche nei suoi momenti meno malleabili – l’inizio del concerto, con le dilatazioni stancanti e malate di una The Knot spintasi a quasi tre quarti d’ora di durata – i toni non sono quelli di una band intenzionata a spazzarti via con potenza annichilente (ricordo ancora un concerto dell’epoca di The Seer, a Torino, in cui Gira, quella sera malaticcio, si scusava di non riuscire del tutto a sopraffarci), quanto piuttosto desiderosa di risucchiarti in un gorgo più atmosferico che altro, in cui persino i momenti più rock, ipnotici e lineari (Screen Shot, The Man Who Refused To Be Unhappy) sono comunque tappe di un viaggio la cui destinazione finale non può che essere l’ultimo estatico quarto d’ora finale, in cui gli strumenti diventano un’onda imponente, un drone dal sapore quasi mistico, in cui definitivamente perdersi in un abbacinante fulgore luminoso.
La curiosità di cosa accadrà ora è tanta, ma le due ore e mezza di stasera ci hanno detto che, comunque, questi Swans ci mancheranno tantissimo.