Il quartetto canadese, di Montreal, dei Suuns, dopo essersi rivelato uno degli act più infiammanti dello scorso Primavera Sound ed aver portato la propria caustica musica in altre città italiane lungo l’estate, approda finalmente anche a Milano, per proporre le canzoni del loro ultimo Hold/Still, per il sottoscritto uno dei dischi migliori dell’annata in ambito (sommariamente) post-punk.
Ad aprire per loro, i drone e le campiture elettroniche di Brian Case, il leader dei Disappears, qui in territori lontanissimi da quelli della band di provenienza. Niente chitarre e, tranne che nell’ultimo pezzo, neppure niente voce, ma solo una serie di filamenti sonori pulsanti, magari anche piacevoli ma, bisogna dirlo, non propriamente il massimo dell’originalità. Torna a imbracciare la chitarra Brian!
Grandissimi ancora una volta i Suuns, invece. Quando salgono sul palco, il Biko è decisamente affollato e il pubblico è pronto a partire per un trip, magari non lunghissimo, ma sicuramente intenso. I quattro sono per il 99% del tempo immersi nell’oscurità, con un gonfiabile alle loro spalle con la scritta Suuns a fare da unica riverberante fonte luminosa.
La loro musica è capace abilmente di stare in bilico tra istanze sperimentali ed una perversa fascinazione che non è mai pop, ma che senz’altro li rende accattivanti. Quelle cantate da Ben Shemie non sono mai vere melodie, ma piuttosto piccole litanie ipnotiche, mezzo parlate e mezzo sputacchiate fuori, che s’inseriscono tra le frasi semplici, ma sempre clamorosamente memorizzabili, della chitarra di Joe Yarmush, poi completate dalla chitarra più rumorosa di Shemie stesso; tra le basslines create dalle tastiere di Max Henry, una sorta di alchimista sotterraneo; infine dai quattro quarti metronomici del batterista Liam O’Neill, l’autentico motore della formazione.
Proprio quest’ultimo è colui che dà alla musica del quartetto quel groove techno che li rende futuristicamente ballabili, che rende papabile una musica altrimenti oscura e plumbea, cupamente incastonata in un crocevia dove far collidere fra di loro post-punk e psichedelia, noise e ripetitività krauta.
Perfettamente sintetizzata da pezzi come l’eccitante Translate o come le velenosa Resistance, la performance dei Suuns, in larga parte basata sui pezzi dell’ultimo album, pur con ben armonizzati ripescaggi del repertorio precedente, ha trasformato le teste e i corpi dei presenti in un’onda oscillante, rapita dall’estasi di un sound tagliente, ma pure fulgidamente onirico. Come si diceva sopra, decisamente un bel trip.