Che i Superdownhome fossero una band dal motore bollente, già lo sapevamo, e che Enrico Sauda e Beppe Facchetti fossero due ottimi ed esperti musicisti, anche. Per chi non avesse mai assistito ad un loro spettacolo dal vivo, è sufficiente volgere l’attenzione ai dischi sfornati negli ultimi cinque anni, specchio di un appassionato impegno nel portare avanti il dogma della propria musica e a kilometri di strada ricchi di fini collaborazioni.
Il sodalizio nasce nel 2016, a seguito di un’idea che voleva un progetto legato alla saga di quel blues rurale animato da che anima la tradizione Country Hill, ma gli spazi personali lo hanno visto aprirsi a diverse e fantasiose contaminazioni. Un’amore viscerale per quelle sonorità ridotte all’osso e tanto predilette a certe latitudini laggiù in America, amalgamate con maestria e vigore in ogni loro distinta sfaccettatura, mettendo assieme un sound formato da nervose serpentine elettriche e infuocati boogie, che lasciano espressivi angoli a rifugi acustici svincolati da ogni tempo e dimensione.
La serata, dedicata alla presentazione del nuovo disco Blues Pyromaniacs, è un esuberante viaggio in un mondo di rivelazioni ibride e blues intossicato, capace di trasformarsi all’improvviso in un r’n’r distorto o in un’interpretazione personale di tutta quella tradizione americana che ha a che fare con polvere, sudore e fango.
Apertura col botto, come si suol dire, davanti a un’attentissima platea, che non lascia dubbi sull’apprezzamento dell’intero set. 24 Days e i suoi psycho-effetti lanciano i due spiriti sul palco verso un rimaneggiato Seasick Steve, dal quale traggono costante ispirazione, a introdurre una Booze Bloodhound figlia bastarda di quegli incroci che si trovano a sud del Mississippi. Coraggiosi ritmi della batteria, sguaiati, sghembi, che spingono un groove incalzante ed incisivo assieme ai potenti riff della chitarrra. Con l’aiuto dello slide, un consumato sound scivola su un manico che si trasforma all’occorrenza in Cigar Box o Diddley Bows, una Telecaster messicana o una Silvertone del ‘59.
Il loro blues coriaceo, alchemico, con le radici ben piantate nel terreno del profondo Sud, ispiratore di quel titolo inventato su un gioco di parole un pomeriggio americano (durante l’ultimo tour negli States), porta avanti il set fra i clap del pubblico su di quei suoni aspri che fanno comunella con le vibrazioni elettriche, mentre il pattern ritmico consuma un’escursione lungo tutta la carriera, cesellata da collaborazioni sì importanti, ma soprattutto da esperienze che hanno fatto crescere in maniera vertiginosa i due musicisti bresciani.
Popa Chubby, Charlie Musselwhite, il mastering di Brian Lucey nel secondo album, (Get My Demon’s Straight) e le aperture nel 2019 al tour italiano dei Fantastic Negrito, l’International Blues Challenge nel 2020 e l’invito al Samantha Fish Cigar Box Guitar Festival a New Orleans, Dennis Greaves e Mark Feltham, un repertorio da cui attingere di tutto rispetto.
“Cose successe in questi anni”, dice Facchetti, che racconta e intrattiene come un cantastorie divertito, mentre Sauda incorpora una voce ruvida che gratta come carta vetro, saliscende su quel cigar consumando effetti sporchi, e quando ingaggia Disaster Noon o Disabuse Boogie aloni demoniaci scendono sul palco come se quei due fossero posseduti. Una Shake Ur $ rimescolabudella, Utter Daze, Nobody’s Twist che scortano l’orgoglio per il nuovo disco (con la produzione di Anders Osborne), ma anche una Taverner’s Boogie bluesy e meno spigolosa e momenti acustici che esaltano il loro approccio minimale, l’abilità di rimescolare i mood passando da parantesi selvagge a minuti vellutati, rare oasi in cui i ritmi rallentano in un suono primordiale, dando spazio anche a un’indiscutibile perizia tecnica, da artigiani della musica.
Goodbye Girl, la reinterpretazione di Kick Out The James e una bellissima Higway Music, su tempi appoggiati a morbidi ipnotismi. Echi, risonanze e flessuose curve che accompagnano verso il primo ospite, il chitarrista Francesco Zovadelli, appassionato di Bombino e di quel blues tuareg che accende magnetiche scintille. Il palco si colora di arabeschi elettrici, amore, identità, e bellezza del deserto. Bellissime le voci e catartici i passaggi fra le due chitarre, i sincronismi retti dalle sequenze delle pelli gravi, asciutte, efficaci, in un’atmosfera esotica che porta il Teatro 89 direttamente ai battiti del cuore.
Un’esperienza indubbiamente da seguire, nel piccolo mondo di coraggiosi musicisti e dei loro mentori che eroicamente avanzano con la coerenza delle loro idee.