Quando quattro anni fa, durante il tour di The Age OF Adz, Sufjan Stevens calò per la prima volta in Italia per un unico concerto, ancora oggi indimenticabile, al Teatro Comunale di Ferrara, fu un esplosione di suoni, luci, colori. A volerla fare breve, fu un esplosione di gioia pura. Stavolta, però, Sufjan sta portando in giro le canzoni di Carrie & Lowell, il nuovo album che, lo saprete ormai tutti, è nato all’ombra della perdita della madre, morta dopo una lunga malattia e con la quale aveva sempre avuto un rapporto tutt’altro che sereno, pacificato giusto negli ultimi, drammatici momenti. Un disco inevitabilmente dimesso, triste, attraversato da temi quali la disperazione, il lutto, il dolore. Un disco bellissimo però, questo lo abbiamo già detto molte volte, che con un pugno di angeliche melodie ed una incantata gestione dei suoni arriva dritto dritto fino al cuore.
Poco più di due settimane fa, il sottoscritto aveva avuto modo di vedere un suo show all’End Of The Road festival in Inghilterra, un concerto stupendo ma, vista la situazione festivaliera, un po’ più movimentato e con una scaletta variegata, spaziante lungo i pezzi di molti dei suoi album. Qui, nell’ampio Teatro della Luna di Assago, una tensostruttura posta proprio al lato del Forum, il cuore dello show ed il mood tutto sono stati dettati invece dalle canzoni dell’ultimo disco, proposto praticamente per intero. Ed è stato qualcosa di nuovamente diverso, un’immersione totale ai confini con lo spirituale, dove l’indiscussa autenticità di sentimenti e turbamenti personali, è stata rigirata in qualcosa di universale, in una sorta di catarsi collettiva, di condivisione umanista del dolore come modo inderogabile per liberarsene. Ne ha parlato lo stesso Sufjan nel bis – durante il set principale non c’è stato spazio per le parole – scusandosi per la tristezza delle canzoni, ma ribadendo la necessità (per lui) di esorcizzare il dolore attraverso la sua arte, una necessità divenuta essenziale anche per il suo pubblico, testimone e parte in qualche modo attiva in questa sorta di rito confessionale.
Aperto da Redford (For Yia-Yia & Pappou), intro strumentale che stava su Michigan, il concerto ha avuto tutta la prima parte incentrata su Carrie & Lowell: alcune canzoni mantengono la forma intima ed accorata che hanno sull’album, vedi la Death Of Dignity eseguita come primo brano, Eugene o The Only Thing, per dirne qualcuna. Altre hanno arrangiamenti rivisitati e si beano degli interventi dei quattro abilissimi multistrumentisti che lo accompagnano – tra i quali la cantautrice Dawn Landes, la cui voce spesso si unisce a quella di Sufjan: Should Have Known Better e Fourth Of July, entrambe intensissime e strazianti, ascendono verso il cielo con crescendo magistrali; Carrie & Lowell ha un più pimpante andamento folk-rock; All Of Me Wants All Of You, quella più rimaneggiata, si trasforma in pop elettronico totale alla maniera che fu di The Age Of Adz. Il tono elegiaco e pastorale di queste intime folk songs, la voce fragile e sussurrata con cui vengono cantate – tra l’altro, pare che Stevens fosse seriamente raffreddato – ne aumentano l’intensità, accresciuta poi da un uso fantastico delle luci e da una serie di visual alle spalle, tra i quali non mancano filmini famigliari amatoriali, giusto per non farsi mancare nulla. Per un artista sofisticato (e pop) come Sufjan Stevens, infatti, anche il dolore passa attraverso uno spettacolo impeccabile e studiatissimo, di certo attraverso un mettersi a nudo, ma non attraverso l’esposizione cruda delle viscere. Carrie & Lowell viene abbandonato per una bellissima The Owl And The Tanager (stava su All Delighted People) e per una Vesuvius come sempre emozionantissima, per poi tornare nel finale con Blue Bucket Of Gold, chiusa da una lunghissima coda ambient/elettronico/rumorista, summa lisergico-misticheggiante di tutte le code presenti alla fine di molte canzoni dell’ultimo album ed autentico trip.
I pezzi dell’amato Illinois arrivano solo nei bis, (insieme ad una For The Widows In Paradise, For The Fatherless In Ypsilanti da Michigan e da The Dress Looks Nice On You da Seven Swans), dapprima con Concerning The UFO Sighting Near Highland, Illinois, poi con una al solito fatata Casimir Pulaski Day e con una Chicago acustica, quieta e fedele al mood del concerto, suonata tra l’altro con Basia Bulat, brava cantautrice canadese che aveva aperto col suo set di canzoni tra folk e pop. Quasi due ore di concerto da brivido, senza dubbio tra i migliori dell’anno, accolto da un pubblico attento e numerosissimo (sold out da mesi), stregato dalle canzoni di questo piccolo genio chiamato Sufjan Stevens.