
Qualche mese fa, quando su Buscadero stavamo preparando la lista dei migliori dischi del 2024, mi venne in mente di mandare un messaggio a Steve Wynn per sapere quali fossero i suoi album preferiti dell’anno che stava volgendo al termine. Non che avessi molti dubbi, ma chiaramente le sue scelte, tutt’altro che ovvie o di retroguardia, mi confermarono una cosa che in fondo sapevo già: Steve è rimasto un grandissimo fan della musica, sempre alla ricerca di nomi nuovi e cose da scoprire, mosso da una passione bruciante, che per nulla si è evidentemente attenuata col passare degli anni.
Del resto, per testarla, basta andarlo a vedere dal vivo, da solo, con i Dream Syndicate o con uno dei suoi vari progetti che, per fortuna, spessissimo ha portato sui nostri palchi, in un Italia che è sempre stata pronta ad accoglierlo con calore, grazie a uno zoccolo duro di fan che non saranno numerosi come quelle di una super star, ma di certo ha un amore nei confronti della sua musica di pari, se non superiore intensità.
In questi giorni sta portando in giro una serie di concerti che, forzando un po’ la mano, potrebbero essere visti come il contraltare di quello che per Springsteen furono gli spettacoli a Broadway. Sono infatti show in parte riempiti di canzoni rese in versione acustica, in parte raccolta di storie tirate fuori dal suo libro autobiografico Non lo direi se non fosse nero, in Italia pubblicato non molto fa dalla sempre benemerita Jimenez.
Il libro, che termina con la prima fase di carriera dei Dream Syndicate, chiaramente tratteggia la storia della band, ma è anche il racconto dell’ossessione di questo ragazzo appassionato di musica, continuamente folgorato dalla scoperta di nuove band e capace di farsi 3000 chilometri su un bus Greyhound, da Los Angeles a Memphis, senza appuntamenti o certezza alcuna, solo per provare a incontrare quello che per lui è un mito, Alex Chilton dei Big Star, scovato tramite un indirizzo posto sul retrocopertina di un disco dei Panther Burns e, di fatto proprio grazie a Tav Falco, intercettato in un bar dove, per una settimana, gli starà accanto comprandogli birre e sigarette, prima del benservito una volta finiti i soldi.
Wynn racconta la sua storia (in parte leggendo parti estrapolate dal libro, ma soprattutto andando a braccio con la giusta dose di umorismo, autoironia e partecipazione) intervallando il racconto con le canzoni di cui parla. Ecco allora un accenno di Jumpin’ Jack Flash degli Stones, la sua prima canzone scritta quando aveva nove anni (Sing My Blues), le fondamentali scoperte dei Velvet Underground (Sunday Morning) e dei citati Big Star (Jesus Christ). E poi l’amicizia con Kendra Smith e la nascita delle band che porteranno ai Dream Syndicate, complice la rivoluzione del punk e della New Wave, che a lui come a tanti aprirono possibilità che prima potevano apparire del tutto precluse.
Sul palco con Steve due dei migliori musicisti italiani, Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours al violino ed Enrico Gabrielli dei Calibro 35 a tastiere, sax, flauto, armonica, clarinetto basso, autori di arrangiamenti stupendi che, con nuove vesti spesso raffinatissime, sempre esaltanti, ci hanno per l’ennesima volta fatto capitombolare di fronte a pezzi come That’s What You Always Say, Tell Me When It’s Over, un’arrembante Definitely Clean, le sempre stupende When You Smile e Merritville.
Pagato pegno alla sua produzione solista con Make It Right, title-track dell’ultimo album a suo nome, fortemente impregnato dei temi sviscerati nel libro, il finale di concerto segue la parabola della band attraverso il racconto delle difficoltà patite durante le registrazioni di Medicine Show (con esecuzione del brano che titolava l’album), passando per una Boston che «in Italia è sempre stata amata particolarmente», fino al commiato con una canzone emblematica fin dal titolo, When The Curtains Fall, ultima canzone del (temporaneo) canto del cigno Ghost Stories.
Tra battute a volte davvero memorabili – «volevo che i dischi dei Dream Syndicate, nella mia collezione, stessero fra quelli di Dylan e dei Doors, o forse di Drupi!» – e anedotti vari, il vero finale è affidato a un passaggio narrato stavolta in italiano e che ben riassume il senso di tutto lo show e di quello a cui abbiamo accennato sopra: ovvero che, dopo 400 canzoni scritte e registrate e 200 canzoni solo scritte ma mai registrate, quel sacro fuoco non si è ancora spento e che, ancora oggi, per lui e per noi con lui, sono ancora i giorni del vino e delle rose. E lo sferragliare potente di (appunto) The Days Of Wine And Roses, messo in scena con l’energia di sempre, ce lo porteremo dentro come sempre a lungo, perché Steve Wynn rimane uno dei più grandi e in questa serata l’ha dimostrato per l’ennesima volta.