Non credo di poter essere smentito se affermo che andare a vedere dal vivo Steve Wynn, anche coi Dream Syndicate certo, ma nettamente di più se si presenta sul palco da solo armato unicamente della sua chitarra, è qualcosa di molto simile al ritrovarsi con un vecchio amico che non vedi da tempo. La maggior parte delle persone che vanno ai suoi concerti – i quali, ahimè, in larga parte hanno ormai i capelli ingrigiti – probabilmente lo hanno già visto una marea di volte, sanno benissimo cosa aspettarsi, eppure ogni volta tornano ben sapendo che come minimo si troveranno di fronte un uomo e un musicista sempre profondamente rispettoso nei confronti del proprio pubblico, sempre capace di regalare emozioni con un pugno di canzoni la cui bellezza non è sfiorita con gli anni, il tutto inoltre, a dispetto del passare del tempo, non permeato di quel reducismo nostalgico che, anche quando potrebbe apparire, è perfettamente bilanciato dal fatto che la sua carriera è andata avanti sempre con coraggio e rilevanza fino a oggi, senza adagiarsi unicamente sui giorni di gloria.
Lo sta dimostrando anche in queste date in solo, nelle quali lo sguardo è sì naturalmente rivolto al passato – non c’è un disco nuovo da supportare, bensì i cofanetti retrospettivi Decade (dedicato ai suoi album solisti) e l’imminente ristampa espansa in tre CD di Out Of The Grey dei Dream Syndicate – ma nelle quali, senza troppa gerarchia, sta suonando pezzi vecchi, ma anche nuovissimi dei DS, brani tratti dai vari progetti ai quali s’è dedicato negli anni (Gutterball, Danny & Dusty, The Baseball Project), oltre che chiaramente quelli dei suoi album solisti e coi Miracle 3. Il tutto con quella passione, convinzione e con quella gioia di stare sul palco che da sempre appare evidente e palpabile e che contribuisce non poco a farcelo sentire così vicino, così caro, proprio come se fosse un amico, per l’appunto.
Il rapporto di Steve Wynn con l’Italia è poi stato sempre particolarmente stretto, e difatti anche stavolta viene dimostrato da una programmazione di ben quattordici date, alcune delle quali addirittura con doppio set. Ad attenderlo al Bloom ci sono una settantina/ottantina di persone a riempire le sedie poste davanti al palco. Lui, in formissima, camicia rossa e un piglio ancora giovanile pur passati i sessant’anni, alle 21:25 sale sul palco, imbraccia la chitarra e parte subito con una doppietta Dream Syndicate, ossia la titletrack dell’album che sta per tornare nei negozi, Out Of The Grey, e una sempre gradita The Medicine Show.
Una volta tanto, però, devo dire che gradisco soprattutto quando va a ripescare pezzi dal suo ormai corposissimo songbook. Lo dice lui stesso, suonare da solo gli permette di eseguire ciò che gli pare, scompaginando persino la scaletta che lui stesso s’era preparato prima di salire sul palco e andando piuttosto a pescare da una lista alternativa posta al suo fianco. Sfilano così una bellissima Tears Won’t Help, l’intima e scura Follow Me, una Sweetness And Light al contrario dal piglio pop e una rockata Strange New World, che infine lascia spazio a una That’s What You Always Say che, scherza Steve, stava su un disco che sta per compiere quarant’anni, il che è strano visto che lui di anni ne ha 35.
Black Light è un altro pezzo dei Dream Syndicate, ma è uno dei brani più recenti: viene introdotta dicendo che a volte non avere alle spalle la sua band gli manca e che per ovviare a questo fatto ha dovuto comprimerla in un pedale che gli permette di trasformare la sua sola chitarra in un’intera band. Stratifica i suoni e ne viene fuori una versione sincopata, che mantiene un po’ della cupezza dell’originale. Lo stesso fa con una tagliente Daddy’s Girl, prima di recuperare una The Ambassador Of Soul tratta da uno dei dischi coi Miracle 3 e non proprio notissima, nonché una Song For The Dreamers che invece faceva parte del progetto Danny & Dusty, realizzato in coppia con Dan Stuart dei Green On Red, nel quale Dan era Danny e io chissà come mai ero Dusty, scherza Steve ricordando quei giorni.
Fino alla fine si oscilla tra classici conclamati come Tell Me When It’s Over e canzoni semplicemente bellissime come Shelley’s Blues Part.2, Glide (che pur facendo parte del repertorio dei Dream Syndicate più recenti, un classico lo è diventato già), Carolyn. Al Bloom Wynn è di casa, da queste parti è passato numerosissime volte. Ci racconta che prima di salire sul palco era nel camerino da solo assieme a Kurt Cobain, perché sì, lì si trova una grossa foto del leader dei Nirvana scattata in una delle occasioni in cui la band suonò nel locale di Mezzago. Proprio a Kurt, Wynn dedica il pezzo che chiude il set principale, una canzone che parla di spingere i propri confini fino al limite, e parte con una devastante e travolgente, nonostante sia da solo, Amphetamine.
A questo punto i due encore sono chiaramente all’insegna degli evergreen: si parte con Halloween, per passare a The Days Of Wine And Roses e, nel secondo bis, a una stilizzata Too Little, Too Late. Ma c’è ancora tempo per un altro pezzo, There Will Come A Day, che Steve inizia sul palco, ma che per quasi la sua interezza, seguendo l’istinto del momento, esegue unplugged e senza microfono scendendo in mezzo al pubblico, per un abbraccio che anticipa le chiacchiere al banchetto, il rituale delle foto e degli autografi, al quale davvero non si sottrae mai. Grande come sempre insomma, e appuntamento alla prossima volta.