Recensioni

STEVE BARTON, Time Hard Won

STEVE BARTON
Time Hard Won
Right Track
***1/2

Anche se nessuno sembra curarsene, Steve Barton da Portland, Oregon, produce musica di ottima qualità da lontano 1982, l’anno in cui i suoi Translator — una versione new-wave tanto assurda quanto gustosa di Beatles, Kinks e Who — esordirono su Columbia. Solista dal 1999 del promettente, già compiuto The Boy Who Rode His Bike Around The World, venticinque anni più tardi Barton continua a sfoggiare un’introspezione degna di cantautori elettrici quali Paul Westerberg, Tonio K. o Peter Case applicandone il dettato con rigore e passione, addirittura con una sensibilità e una profondità apparentemente del tutto scollegate da un contemporaneo dove l’approssimazione dei contenuti è diventata la regola.

Realizzato pressoché in solitudine, ricorrendo soltanto ai tamburi del vecchio amico e collega Dave Scheff (American Music Club, Dead Kennedys), Time Hard Won è l’opera numero 8 in un percorso nel quale il gesto di dare vita a una prerogativa — quella di scrivere canzoni confessionali sull’età adulta senza rinunciare a riff brucianti, romanticismo, orecchiabilità — non si è mai tradotto nel mero svolgimento di un compitino. Anche stavolta, come suggerito dal titolo, Barton parla di vulnerabilità, di insicurezze e soprattutto della paura di restare soli attraverso una poetica semplice ma non sbrigativa, capace di trarre significato e valore dall’essenzialità di suoni all’insegna del più classico rock & roll.

Sfido chiunque a restare impassibile davanti alle chitarre appuntite di Any Anywhere, forse l’episodio più affine allo spirito wave dei Translator, o agli accordi di quinta della potente Love Is Soul, da qualche parte tra Bob Seger e una fiammata psichedelica come andava di moda nella San Francisco di fine ’60, ma anche a non commuoversi, almeno un po’, dedicando attenzione allo stropicciato intimismo elettroacustico di Ours And Ours Alone, una di quelle ballate così intime e avvolgenti da far pensare che l’autunno sul Pacifico si possa affrontare indossando solo uno striminzito giubbotto di jeans.

Non mancano le sorprese, perché la spigolosa She’s Your Ocean Now evoca un possibile intreccio tra Velvet Underground e Talking Heads, mentre il sovrapporsi di spazzole, sei corde e pianoforte della conclusiva title-track non può non ricordare il John Lennon più sofferto.

Ma Time Hard Won, per chi apprezza il rock urbano segnato dal patrimonio delle radici e da evidenti qualità d’autore, convincerà soprattutto per la disinvoltura con cui i suoi 10 brani sottolineano come ricercatezza non debba obbligatoriamente far rima con compiacimento. Se cercavate un erede della sprezzatura appartenuta a certi protagonisti del cosiddetto «nuovo rock» degli anni ’80 (si possono tirare in ballo anche i nomi di Dan Stuart e Steve Wynn, per esempio), in Steve Barton — fidatevi — l’avrete trovato.

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