Standing In The Breach, uscito giusto un mese fa, dopo i sei anni di silenzio seguìti al precedente lavoro solista (il meno convincente Time The Conqueror), ci ha riconsegnato un Jackson Browne fresco e ispirato come nei momenti migliori di una lunga carriera iniziata circa mezzo secolo fa, quando il nostro, appena maggiorenne, si unì alla Nitty Gritty Dirt Band per aprire un concerto californiano degli allora popolarissimi Lovin’ Spoonful. Sempre quest’anno, il doppio Looking Into You, pubblicato dalla Music Road di Jimmy LaFave e costellato da nomi prestigiosi (Bruce Springsteen, Bruce Hornsby, Lyle Lovett, Lucinda Williams etc.), ha reso alla scrittura del musicista nato in Germania 66 primavere fa uno di quegli omaggi per fortuna privi di esalazioni da obituario e anzi ricchi di entusiasmo, passione, ammirazione. Ci uniamo al tributo provando a ripercorrere, attraverso le sue canzoni più belle (chiuse in una lista che sarebbe potuta cambiare in ogni momento), la vita e i dischi di un artista unico.
Prima di metterci a giocare con lista e classifica, una breve avvertenza. L’elenco che segue riflette solo e soltanto il gusto di chi l’ha compilato, non della redazione toutcourt, e vuole soprattutto rendere meno seriosa e appena più leggibile (almeno spero) l’idea stessa di redigere una monografia sul curriculum (straordinario) di Jackson Browne, per approfondire il quale di canzoni ne andrebbero segnalate non venti ma almeno il doppio o il triplo. L’unica regola cui mi sono attenuto è stata quella di non includere brani altrui; altro motivo per giustificare l’assenza dello splendido medley tra l’autografa The Load-Out e la Stay di Maurice Williams & The Zodiacs (1960) che conclude Running On Empty non ci sarebbe stato. Ciò premesso, buona lettura (e buon dissenso).
20. The Birds Of St. Marks, da Standing In The Breach (Inside Recordings, 2014)
I cosiddetti “anni Zero” non sono decisamente stati il momento migliore nella carriera di Jackson Browne. Inaugurati da un The Naked Ride Home (2002) troppo lungo e troppo arrangiato, prolisso e faticoso nell’affondo politico della velenosa Casino Nation come nelle cupe meditazioni di Sergio Leone e My Stunning Mystery Companion, sono proseguiti con le buone vendite dell’antologia doppia The Very Best Of (2004), espansione dell’altrettanto fortunato greatest-hitsdel ’97, il tiepido consenso raccolto dal poco amato Time The Conqueror del 2008, album non tremendo benché troppo opaco sotto il profilo della scrittura per non innescare la solita nostalgia verso i bei tempi andati, e ben tre album dal vivo usciti tra il 2005 (Solo Acoustic Vol.1) e il 2010 (Love Is Real: En Vivo Con Tino), tutti peraltro apprezzabilissimi (soprattutto il secondo, Solo Acoustic Vol.2, anch’esso targato 2008) e tuttavia non sufficienti a scacciare l’impressione che il nostro stesse più o meno campando di rendita sopra l’araldica di un percorso quasi mai al di sotto di standard minimi di ispirazione e determinazione. È stata quindi una sorpresa, e delle più gradite, constatare come Standing In The Breach sia non soltanto il lavoro migliore dell’artista da vent’anni a questa parte, ma proprio un disco carico di brani memorabili, battaglieri, significativi, idealisti e coerenti come non accadeva da tempo. Il più bello di tutti si intitola The Birds Of St. Mark e, non fosse per qualche ruga vocale in più, potrebbe appartenere alla seconda metà dei ’70, allorché Browne non sbagliava un colpo nemmeno a farlo apposta.
In realtà il pezzo risale al decennio precedente, nello specifico al 1967, e fu scritto dal giovanissimo artista dopo un breve soggiorno a New York: Browne dice di averla sempre immaginata come una canzone dei Byrds e, dopo averla tenuta nel cassetto per un pezzo, l’ha rispolverata prima in Solo Acoustic Vol.1, e oggi su Standing In The Breach, dov’è eseguita dalla 12 corde di Greg Leisz, dalla seconda chitarra di Val McCallum, dal basso di Bob Glaub e dai tamburi di Don Heffington. Melodia incalzante, l’ugola calda del titolare, l’atmosfera delicata e malinconica di un country-rock elettrico, una spolverata di sentimentalismo made in California: davvero a Jackson Browne non serve altro per estrarre dal cilindro il più recente dei suoi numerosi classici.
19. The Barricades Of Heaven, da Looking East (Elektra, 1996)
Poco amato persino dai più integralisti tra i fan, Looking East soffre il difetto di arrivare dopo una mezza resurrezione come I’m Alive e di riportare l’artista in quella dimensione di critica sociale non sempre gradita a chi vorrebbe Browne in eterno abbonato a canzoni sugli amori perduti e sulle loro pene. Eppure, al di là di una confezione probabilmente troppo patinata (conseguenza forse inevitabile della trentina di musicisti, da Ry Cooder agli Heartbreakers al completo, occorsi per realizzarlo), il disco, più simile al parto rabbioso di una band che alla serenata umile di un cantautore, non è invecchiato affatto male. A stagionare con grazia è stata soprattutto The Barricades Of Heaven, una rattristata meditazione sullo sfiorire della giovinezza («Avevo 13 anni quando iniziai a suonare la chitarra», dichiarò Browne in un’intervista, «era qualcosa a cui potevo accostarmi, piccolo e magro com’ero, mentre tutti i miei coetanei erano in giro a fare surf») avvicinabile all’epos romantico e dolceamaro di opere come Late For The Sky e The Pretender, nonché una delle preghiere folk-rock più intense, e umane, tra quelle da sempre intonate dal suo autore.
18. Of Missing Persons, da Hold Out (Asylum, 1980)
Malgrado l’album da cui proviene sembri il classico vaso di coccio sistemato con poca convinzione dopo quelli di ferro (all’epoca venne persino accusato di strizzare l’occhio alle classifiche pop), Of Missing Persons rappresenta, assieme al feroce e al tempo stesso agrodolce assalto elettrico in up-tempo della sottovalutata Boulevard, il punto più alto dell’intero Hold Out. Si tratta di una ballata pianistica, accompagnata dagli inconfondibili gemiti della lap-steel del fidato David Lindley, in cui Browne ricorda l’amico e collega Lowell George, da poco scomparso. Difatti il titolo proviene da una canzone dei Little Feat (Long Distance Love) e le liriche sono rivolte, in forma di racconto e domanda, alla figlia di costui, l’allora seienne Inara. Non è la prima volta che l’artista si riferisce a «persone scomparse»: era già accaduto in Song For Adam e For A Dancer, ma in questo caso il dolore per la perdita è mitigato dalla volontà di vivere ancora e non arrendersi, nonostante tutto. Perciò il tono di Of Missing Persons, sebbene non meno penetrante e doloroso di quello dei brani citati, scivola in modo naturale verso una conclusione all’insegna della fiducia nel domani, sottolineata da un coro soul (opera di Rosemary Butler, in precedenza collaboratrice di Stones e Bonnie Raitt) tanto sorprendente e in apparenza fuori tema quanto, in fondo, rigenerante.
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