In ricordo di Harry Dean Stanton [1926-2017]
Non aveva partecipato alla première elvetica del suo ultimo film — Lucky (2017), commosso e filosofico esordio dietro la macchina da presa di John Carroll Lynch presentato lo scorso agosto al Festival di Locarno — perché, ipse dixit, «non ho trovato un aereo dove si possa fumare».
Proprio in quel film, Harry Dean Stanton, novantunenne, interpretava uno scorbutico coetaneo costretto a misurarsi, ma in modo molto umano e tutt’altro che sentenzioso, con le cose ultime dell’esistenza: un ruolo da protagonista, insomma, piuttosto insolito per chi, protagonista, lo era stato solo in Le Colline Blu (Ride In The Whirlwind, 1966), western demistificatorio, irreale e antiretorico diretto dall’amico Monte Hellman (che lo volle anche in Strada A Doppia Corsia [Two-Lane Blacktop, 1971], accanto a James Taylor e Dennis Wilson, e nello sfortunato Cockfighter [1974]) e avrebbe accettato di tornare a esserlo solamente, grazie all’interessamento dell’amico (e sceneggiatore del film) Sam Shepard, per il Wim Wenders di Paris, Texas (1984), Palma d’Oro a Cannes per la storia di un vagabondo privo di ricordi e linguaggio, accompagnato dalla chitarra ossuta e malinconica di Ry Cooder alla ricerca di un figlio perduto e di una moglie scomparsa, tra la sabbia del deserto, il cemento ribollente delle autostrade, insegne al neon e locali di periferia immortalati dalla fotografia tagliente di Robby Müller.
«Mi ha detto che il personaggio non parlava per i primi trenta minuti», rispondeva Dean Stanton, modesto e minimizzante come sempre, a chi gli chiedeva cosa avesse escogitato il regista tedesco per fargli accettare la parte. I suoi cameo erano diventati veri e propri feticci per cineasti quali David Lynch (su tutti), John Carpenter o Francis Ford Coppola, ma era l’attore stesso, nato nel Kentucky della Grande Depressione e arruolato in marina, appena maggiorenne, durante la Seconda Guerra Mondiale (dalla quale fece ritorno con qualche difficoltà a inserirsi di nuovo nella vita civile), giornalista, comparsa televisiva e infine debuttante sul grande schermo (benché non accreditato) tramite Il Ladro (The Wrong Man, 1956) di Alfred Hitchcock, a diffidare dei copioni che lo vedessero in scena troppo a lungo: li riteneva eccessivamente faticosi, e anche per questo è stato a lungo considerato il principe dei caratteristi.
Eppure, Harry Dean Stanton, presenza sfuggente e malinconica, è stato senz’altro qualcosa in più di un semplice caratterista, perché dal dramma carcerario di Nick Mano Fredda (Cool Hand Luke, 1967) di Stuart Rosenberg ai mitragliatori del Dillinger (1973) di John Milius, dallo scanzonato e dolente Scandalo Al Ranch (Rancho Deluxe, 1975) di Frank Perry, con le musiche di Jimmy Buffett a illustrare uno script del romanziere Thomas McGuane, al noir del crepuscolo di Marlowe, Poliziotto Privato (Farewell, My Lovely, 1975) di Dick Richards, fino al western autunnale, sconfitto e meditabondo del Missouri (The Missouri Breaks, 1976) di Arthur Penn o al poliziesco disilluso di Vigilato Speciale (Straight Time, 1978) di Ulu Gosbard, il nostro ha attraversato quasi da talismano tutto il cinema a stelle e strisce impegnato a ripensare i propri generi, le proprie mitologie, la propria declinante classicità.
Oltre all’aver conosciuto Bob Dylan sul set di Pat Garrett E Billy Kid (Pat Garrett & Billy The Kid, 1973) di Sam Peckinpah (ottenendo poi da Zimmy un’apparizione nel suo Renaldo & Clara [1978]), si era imbattuto in Kris Kristofferson e Doug Sahm, stringendo con loro amicizia, nelle settimane di lavorazione del sottovalutato Per 100 Chili Di Droga (Cisco Pike, 1972) di Bill Norton, e nei decenni successivi lo avevamo visto nei video musicali di Cooder, dello stesso Dylan, di Dwight Yoakam.
La musica, del resto, era stata la sua grande passione, perciò aveva stupito fosse arrivato a incidere un disco — la colonna sonora di un (bel) documentario su di lui diretto nel 2012 dall’attrice Sophie Huber — solo all’età di 88 anni; ciò malgrado, Partly Fiction (2014), pubblicato dalla californiana Omnivore, si era rivelato una toccante collezione di classici country e folk pescati nei repertori di George Jones (She Thinks I Still Care), Willie Nelson (Blue Eyes Crying In The Rain), Jim Reeves (He’ll Have To Go) o dell’amico Kristofferson (Help Me Make It Through The Night) e interpretati con voce tanto fragile quanto intensa.
Qualcuno ricorderà Dean Stanton nei panni del delirante predicatore cieco della Saggezza Nel Sangue (Wise Blood, 1979) di John Huston, da Flannery O’Connor, e altri lo rammenteranno come il burbero e in fondo insicuro papà operaio di Molly Ringwald in Bella In Rosa (Pretty In Pink, 1986) di Howard Deutch. Chi scrive vorrebbe suggerire di (ri)scoprirlo in 92 Gradi All’Ombra (92 In The Shade, 1975) — unica e misconosciuta regìa dello scrittore Thomas McGuane, da un suo romanzo — dove interpreta il socio ambiguo e chiacchierone del capitano Warren Oates, in lotta contro il giovane e piacente pescatore Peter Fonda: un film su di una scanzonata, inaffidabile, sconclusionata comunità di perdenti all’interno della quale, tramontati gli ideali ma non la dignità personale, l’unico traguardo resta quello di portare a casa la pelle. Un relitto, insomma, ma di un’epoca e di un’altra America (non certo quella attuale) cui continuiamo a guardare con inesauribile affetto anche grazie alla fisionomia scavata e dolente di Harry Dean Stanton.