«Stare al mondo senza musica è come vivere in una prigione», dice Mahamane Garba Touré, giovanissimo chitarrista dei Songhoy Blues, e senz’altro sa di cosa parla. Lui e il suo gruppo, formatosi dopo l’incontro con i quasi omonimi ma non parenti Aliou Touré (voce) e Oumar Touré (basso) presso l’Universita di Bamako, hanno infatti iniziato a considerarsi una band quando, nel 2012, l’ascesa dei gruppi terroristi MUJAO e AQIM – due formazioni di islamisti radicali, la prima nata da una costola dei Guerriglieri Salafiti, la seconda fedele al dettato sunnita di Al-Qāʿida – ha costretto i cittadini laici del Mali settentrionale a riparare verso sud. Reclutato il batterista Nathanaël Dambélé, il trio allargatosi in quartetto ha sentito l’esigenza di dare voce all’anelito di libertà della propria gente con un disco, pubblicato quest’anno dalla indie londinese Transgressive Records (nonché prodotto da Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs), che non poteva intitolarsi altrimenti se non Music In Exile («musica in esilio»).
Perché a dispetto dell’incessante tensione ritmica su cui si dispiegano, le canzoni dei Songhoy Blues, supportati da Damon Albarn (Blur) e presto diventati i pupilli della stampa francese più attenta ai suoni del mondo, parlano e respirano una doppia lontananza, un doppio distacco, una doppia separazione: da un lato, quella forzata dei loro artefici, obbligati a emigrare dai luoghi nativi per non soccombere al fanatismo fondamentalista; dall’altro, quella ultra-centennale del popolo songhai (anglicizzato in «songhoy», da cui la ragione sociale dei nostri), cinque secoli fa, prima della colonizzazione francese, predominante in tutta l’Africa subsahariana e da allora sfollato in una perenne diaspora lungo il fiume Niger e gli stati occidentali – Guinea, Mali, Niger, Benin, Nigeria – da questo attraversati.
Approdati nelle colline romagnole di Modigliana grazie all’impegno e alla visione sempre trasversale del folk assunta dal festival “itinerante” Strade Blu, alla sua quattordicesima edizione, i Songhoy Blues assomigliano ai ragazzi (molti i nordafricani) che potresti incontrare all’oratorio, alla sinistra del palco allestito per farli suonare. Imbracciano strumenti fabbricati in serie, di quelli capaci di far morire d’infarto un liutaio, e nondimeno riescono a far ballare non solo i giovani del paese e gli appassionati di musica accorsi per l’occasione, ma anche gli spettatori più attempati e persino due o tre coppie arrivate forse per caso nella speranza d’imbattersi in una qualche orchestrina della provincia. Nel flusso ipnotico dei loro brani, nello sferragliante sonaglio elettrico di Nick come nel delicato sortilegio folkie di Petit Métier, s’intrecciano svisate hendrixiane e tocchi morbidi alla BB King, la sabbia accecante del deserto e le depressioni del Delta del Niger, la tradizione e la modernità, il funky spinoso dei Talking Heads (impossibile non evocarli durante le esplosioni di Irganda) e quello percussivo e nerissimo di James Brown (dal quale il cantante ha imparato qualche mossa e il gruppo nel complesso ha preso quasi tutto il duello tra sei corde e batteria della travolgente Ai Tchere Bele).
Un mosaico di influenze cui se ne potrebbero aggiungere altre, dal ritmo strisciante del r&b di New Orleans all’inevitabile confronto con il leggendario Ali Farka Touré (evidente modello di stile, assieme a John Lee Hooker, per l’elettrificazione della stupenda Mali), senza peraltro nulla togliere alla forza di un’espressione ogni volta generata dalle radici millenarie del blues e a loro incollata per evitare gli esotismi da cartolina, il folklore normalizzato e narcotizzato a uso e consumo della borghesia salottiera, la subordinazione del buon selvaggio al prurito colonialista di chi alla partecipazione concreta preferisce un dépliant turistico da sfogliare. I Songhoy Blues hanno saputo suonare come se Booker T. e i suoi accoliti fossero nati nel caldo della savana anziché in quello di Memphis, o come se la conterranea Rokia Traoré fosse passata dalla dolcezza etnica delle sue ballate al rapimento elettrico di una cavalcata rock oscillante su di un unico accordo sporco di polvere, vento, nostalgia e sudore. Nessuna ricetta particolare: solo il candore di chi sulla musica, invece di metterla in una teca, vive e sopravvive, ritagliandosi un pezzetto di libertà nel conformismo violento del mondo contemporaneo.