È un giorno speciale questo 16 ottobre 2015 per Bridie Monds-Watson, in arte Soak. Nel pomeriggio è stato dato l’annuncio che il suo disco d’esordio, Before We Forgot How To Dream, è stato inserito tra i dodici finalisti del prestigioso Mercury Prize, il premio che ogni anno la British Phonographic Industry consegna a quello che una giuria giudica essere il miglior album britannico o irlandese dell’anno (il responso finale lo si avrà il 20 novembre). A quello, più che alla giovanissima età, si deve forse il sottile nervosismo con cui la ragazza sale sul palco stasera. O forse, come da lei stesso sottolineato, al fatto che il Biko è un locale particolarmente intimo, col palco molto basso ed il pubblico posizionato letteralmente faccia a faccia con l’artista, tanto da fare risultare potenzialmente più intenso quello che s’instaura fra questi due poli.
In sala, a dire il vero, non c’è moltissima gente o, quanto meno, non quanta era lecito attendersi. Male ha fatto però chi è stato a casa, perché, sia pur appena diciottenne, Soak appare già un autrice di grandissimo talento, che crede moltissimo in quello che fa, cosa che, per chi è di fronte a lei qui stasera, credo sia quanto mai palpabile. Come promesso, al contrario del mini tour fatto prima dell’uscita dell’album, stavolta è accompagnata da una band, un batterista e un altro musicista intento a occuparsi di basso, seconda chitarra e tastiera, a seconda delle occasioni.
I primi due pezzi (Shuvels ed una nuova canzone, sulla scaletta indicata semplicemente come New Song) li fa in realtà da sola, dando vita ad un’avvolgente nube di toccante malinconia. Ovviamente più mosse le atmosfere quando viene raggiunta dalla band, anche se il mood rimane sempre molto evocativo, quasi stregato addirittura. Canzoni stupende come B a noBody, Garden, una Reckless Behaviour dal piglio più pop, giusto per citarne qualcuna, si susseguono tese, scandagliando le varie anime presenti nell’album. La chiusa arriva con una Oh Brother lancinante, dal finale distorto e violentemente brumoso, e con un solo fuggevole bis, l’acustica I Can’t Make You Love Me, cover di un pezzo di Bonnie Raitt. Nei prossimi anni di Soak sentiremo ancora parlare a lungo, nessun dubbio al riguardo.
In apertura, gli italiani Dust in versione ridotta (erano due anziché sette), con un pugno di belle canzoni acustiche, tra cui pure una fedele cover di Thirteen dei Big Star.