L’accoppiata potrebbe in effetti sembrare bizzarra, ma alla fine ci sta che ad aprire il concerto degli shame al Magnolia siano gli I Hate Change, duo rap proveniente dalla Florida che, sotto alle loro rime sparate a velocità fotonica, mettono basi electro imbastardite con beat dance di matrice UK e drum&bass, per un dialogo tra IDM europea e “ghetto bass” americani. Sono iper energici e divertenti e con ben poca fatica conquistano il pubblico che va riempiendo la sala, ovviamente la parte più giovane in particolare.
Dal canto loro gli shame tornano in Italia dopo l’exploit di due anni fa al Todays di Torino, dove, quando ancora vigevano le restrizioni da Covid, avevano messo a segno un concerto brutale e punk, rumoroso e davvero selvaggio, esattamente quello che all’epoca serviva per scuotersi di dosso il periodo allucinato che fino a lì avevamo vissuto.
Nel frattempo, però, hanno pubblicato il nuovo Food For Worms, un disco meno affilato di quello che stavano portando in giro all’epoca (Drunk Tank Pink), che, con gli ascolti, si è rivelato ancor più interessante di quanto non mi fosse sembrato ai tempi della recensione, perché più vario, creativo e capace di andare oltre le direttive post punk messe in mostra fino ad allora, nonché davvero piacevole da ascoltare e riascoltare dall’inizio alla fine. Un passo alla volta, insomma, la band inglese sta costruendo una discografia in evoluzione, non adagiata sugli allori e, anzi, in continua ricerca di nuovi territori da esplorare.
Tutto ciò lo si nota in un concerto (più o meno) equamente diviso, a livello di scaletta, fra i tre album pubblicati finora, che alla fine è risultato essere il migliore fra i loro a cui m’è capitato d’assistere. L’assalto all’arma bianca di un tempo ha lasciato il posto a soluzioni più diversificate e anche dal vivo la bellezza dei vari pezzi risulta evidente, laddove prima avevo avuto la sensazione di essere colpito in testa da una serie di mazzate, la cui potenza smussava via però qualsiasi finezza.
Intendiamoci, m’ero divertito di brutto allora e, come detto, era proprio quello che ci voleva, ma ho gradito parecchio anche il fatto che ora provino a mediare tra l’impatto che un concerto deve avere e l’aspetto invece, chiamiamolo così, puramente musicale.
Poi, vabbè, e lo dico per chiarirci, non si fa in tempo ad arrivare a Alibis, secondo pezzo in scaletta dopo l’anthemica Fingers Of Steel, senza che il cantante Charlie Steen si tuffi in mezzo al pubblico per la prima volta, e, allo stesso modo, piroette e corse da gatto impazzito sono rimaste la norma per il bassista Josh Finerty. Ma sono in fondo spettacolo, perché stavolta gli intrecci e le diverse triangolazioni delle chitarre di Eddie Green e Sean Coyle-Smith sono venuti fuori alla grande, ad esempio in un pezzo come Six-Pack che, a primo ascolto, su disco non m’aveva convinto al 100% e che qui, devo dire, ha invece letteralmente spaccato.
Come un po’ tutti e 17 i brani che sono stati sparati nell’ora e venti di show senza bis. Perché se è vero che gli shame hanno raggiunto una perizia tecnica e un modo di affrontare il palco più consapevole, in sede live rimangono comunque una bomba sempre pronta ad esplodere, decisamente più appuntita e ficcante di quanto i dischi possano far supporre, e questa è sempre e comunque una cosa che fa la differenza. In bene, ovviamente.
Gran bel concerto insomma, meritoriamente baciato da un sold out a parlarci della fama raggiunta.