1965. L’Alabama (e non solo) si batte per l’affermazione di uno dei diritti fondamentali per la popolazione nera: quello del voto, previsto dal 1870 ma di fatto concesso a pochissimi. L’opposizione bianca è esplicitata all’inizio del film: una delle tante donne, più in generale mammies (celebrate paternalisticamente in vari film) al servizio di famiglie bianche, presenta la sua domanda e viene sbeffeggiata e umiliata dall’ufficiale civile che le respinge la richiesta. C’è pure la fulminea ricostruzione dell’uccisione di quattro bimbe, con un esplosivo, in una chiesa di Birmingham (’63).
Siamo sotto la presidenza di Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson) che l’anno precedente aveva firmato lo storico Civil Rights Act, mentre incombono i famigerati J.E. Hoover (l’FBI spia conversazioni e telefonate e aggiunge minacce), il governatore dell’Alabama George Wallace (Tim Roth) e lo sceriffo Jim Clark, che hanno buon gioco a respingere le istanze “locali” portate avanti dai giovani dello SNCC (Student Non-Violent Coordinating Committee), inizialmente contrari alla strategia di Martin Luther King Jr – che nel ’64 aveva ricevuto il premio Nobel –, e dei suoi compagni della SCLC (Southern Christian Leadership Conference), atta a coinvolgere la popolazione, anche per poter eleggere giudici non razzisti.
Ottime scelte e conduzione degli attori e un altro dei pregi della regista DuVernay (originaria di quei luoghi) e dello sceneggiatore Paul Webb è quello di non essersi adagiati sul mito del Dr. Martin Luther King Jr (carisma ed eloquenza(!) ben evidenziati dall’ottimo David Oyelowo), non trascurando i comprimari e la gente comune, a cominciare dall’importante ruolo della moglie Coretta Scott (una somigliantissima Carmen Ejogo), delle attiviste Annie Lee Cooper (brava Oprah Winfrey, che è co-produttrice) e Diane Nash (fondatrice dello SNCC) e altri, tra cui proprio diverse donne, solitamente raffigurate all’ombra dei ruoli maschili. Dagli incontri, convulsi e tesi, ma non irrispettosi, con Johnson e il suo consigliere Lee C. White (Giovanni Ribisi), King non ricava che continui rimandi alla firma della legge, per cui organizza manifestazioni, che lo portano anche in carcere, insieme al vice, il Rev. Ralph Abernathy, e mette in piedi una strategia di marcia che dovrebbe partire da Selma per raggiungere Montgomery (50 miglia) capitale dell’Alabama.
Un primo tentativo di attraversare il ponte che li porterebbe fuori Selma, con qualche centinaio di dimostranti, finisce in un feroce pestaggio da parte della polizia (“Bloody Sunday”, 7 marzo). Una seconda volta, King deciderà di fermarsi e tornare tutti indietro (il ”Turn Around Tuesday”), dopo essersi inginocchiati in forma di preghiera; per questo sarà contestato anche da alcuni dello SNCC. Solo dopo che James Reeb, sacerdote bianco, viene ucciso a botte, King decide di portare a termine il progetto, ottenendo dal giudice del Distretto Federale Frank M. Johnson (Martin Sheen) l’autorizzazione a marciare, insieme a un buon numero di bianchi: cosa che avviene dal 21 al 25 marzo. Alla fine Johnson, dopo uno scontro verbale con Wallace, decide di firmare il Voting Right Act, che entra in vigore il 6 agosto di quell’anno.
Il film che termina con alcune immagini in bianco e nero delle manifestazioni di allora (s’intravvedono anche Harry Belafonte e Sammy Davis Jr), è ben strutturato e narrato. Solo qualche momento di “staticità dialogativa”, e uno sguardo un po’ affrettato su Malcolm X, colto in un bel dialogo con Coretta, ma la cui morte violenta, nel febbraio, scorre superficialmente via. Tra i “passaggi” della pregevole colonna sonora c’è quello di una Mahalia Jackson (qui Ledisi Young) che canta al telefono a King Take My Hand, Precious Lord, Otis Redding in sottofondo con Ole Man Trouble, e infine John Legend e Common (che ha una parte nel film), con l’ottima Glory, che ha vinto un Golden Globe come Miglior canzone originale. (Anche) i tempi come questi “impongono” di vederlo.