All’inizio i Magazzini Generali di Milano non mi sembrano molto pieni. Possibile che le Savages possano aver fatto fiasco? E invece no, è solo la solita abitudine dei milanesi di arrivare sul posto il più tardi possibile, visto che già quando a salire sul palco sono i Bo Ningen, giapponesi d’adozione londinese, chiamati ad aprire i concerti del loro intero tour, la sala può ben dirsi piena. Del resto, come mancare all’appuntamento con una delle giovani live band più esaltanti in circolazione, tra l’altro da poco fuori con un disco bomba come il recente Adore Life, perfetto per essere portato in concerto?
Dicevamo dei Bo Ningen: quartetto dedito ad un’heavy psichedelia di difficile decifrazione, un po’ per la tendenza tutta giapponese ad una teatralità per noi piuttosto bizzarra (soprattutto da parte del cantante/bassista), e poi soprattutto per via di figure melodiche aliene, visto anche il cantato in giapponese. Abbastanza cacofonici all’inizio, con un pezzo in cui pareva che ognuno andasse per i fatti propri, nel proseguio hanno divertito e a tratti esaltato grazie a lunghi mantra ipnotici e acidissimi, trafitti da staffilate di rumore e perfetti per far ondeggiare le loro stilosissime e lunghissime chiome. Magari più scena che altro, ad ogni modo, quantomeno in sede live, decisamente simpatici.
Delle Savages, al loro terzo passaggio milanese in pochi anni, che dire invece? Chi le aveva viste all’inizio avrà notato un incredibile miglioramento. La rabbia compressa delle prime esibizioni, oggi viene canalizzata attraverso una maggiore consapevolezza scenica, attraverso un suono sempre potentissimo, che inizia a far intravedere i possibili margini d’allargamento futuro. Jehnny Beth, oltre che una voce notevole, ha una presenza magnetica, un’energia indomabile, quella marcia in più che dal vivo fa la differenza. Il bello di questo quartetto è che ognuna sembra avere una personalità distinta, poi riflessa nel loro suono e nell’atteggiamento sul palco. E così se Jehnny è quella teatrale, sexy a suo modo, aggressiva; la chitarrista Gemma Thompson è quella seria, introversa, quella che parla attraverso gli aculei della sua chitarra, quella che tende a nascondersi dietro di essa e alle lamine di distorsione che da lì provengono; Ayse Hassan, la bassista, è la più sognante, quella che suona sempre ad occhi chiusi, persa dietro al pulsare del groove (post-punk); mentre Fay Milton – che in questa serata compiva gli anni, festeggiata rumorosamente dal pubblico – è la più solare, la più allegra, la più terrigna, come il suo drumming portentoso testimonia.
In un’ora e mezza hanno suonato tutto il nuovo album e buona parte del primo, da I Am Here ad una sempre epica Fuckers – il cui senso è stato esplicitato dalla Beth in italiano come “non fatevi fottere” – con in mezzo vecchi highlights come Husbands e nuovi classici come I Need Something New (“una canzone sulla noia”), The Answer e quella ballata memorabile e toccante che è Adore, giusto per citare qualche pezzo fra tanti. Grande feeling tra audience e palco, palpabilmente percepibile da ambo le parti, con Jehnny Beth letteralmente su e in mezzo al pubblico in almeno un paio di pezzi, per un abbraccio definitivo e completo.
In definitiva, una serata a cui non bisognava mancare.