Foto © Lino Brunetti

In Concert

Ryan Adams live a Milano, 24/3/2025

Il palco è arredato come un salotto borghese americano degli anni quaranta illuminato di luce fioca da lampade e abat jour in stile, ci sono sedie, un tavolino e tante chitarre, anche una Fender elettrica mai toccata in tutta la serata. In questo decor Ryan Adams è abbigliato come un professore di quegli anni, completo giacca, pantaloni e gilet, camicia bianca e farfallino. Nulla a che vedere con lo spettinato bohemienne dei tempi di Tompkins Square, qui è un signorotto ben pettinato dell’età del jazz e immagine di quanto offrirà il concerto.

Tre ore circa, compresa una pausa di mezz’ora, dove l’artista di Jacksonville, North Carolina, immergerà le canzoni in un diluvio di parole con presentazioni, interruzioni, partenze e ripartenze, aneddoti, un interloquire col pubblico che risulterà parte sostanziale dello show, fino a invitare sul palco tale Simone Bertanza per l’improvvisata esecuzione (quest’ultimo con la chitarra, Ryan al controcanto) di una richiestissima Lucky Now.

Prima di ciò, Adams aveva già chiamato nel suo salotto uno spettatore della prima fila reo di cincischiare col cellulare, invitandolo a scattare un selfie col pubblico come sfondo e, non contento, si era infilato in un botta e risposta con tale Senia, loquace russo-americana residente in Italia che aveva alzato un cartello con scritto che «suo marito Dennis l’amava, ma trascorreva più tempo con la sua musica che con lei». Adams mostrava l’ abilità del prestigiatore, sedendosi al piano inventava per i due coniugi una spiritosa Dennis and Senia. Divertente motivo di estemporanea ed esilarante verve nell’intrattenere il pubblico seguendo il proprio istinto e i propri umori in una sorta di originale happening carpe diem dove le canzoni, a partire dalla riproposizione dell’intero album del 2000 Heartbreaker, si accavallavano nel talking a ruota libera, le battute, l’ironia, il tono tra il sarcastico e il confessionale del suo essere oralmente bulimico.

Supportato da voce vertiginosa nei suoi chiaro scuri, una padronanza della chitarra e del pianoforte notevole, Adams è geniale artista fuori dagli schemi, peccato che in virtù di tutto quel parlare il set (specie nella prima parte) si riveli lungo, prolisso, frammentato. A tratti l’artista vocifera basso, lontano dal microfono, in un inglese che diventa in alcuni momenti puro slang, incomprensibile. Difficile stare al passo, capire il suo disarticolato racconto, il suo show. Oltre all’egocentrismo già noto del personaggio,  se molti riescono ad immergersi in tale estenuante torrente di parole, altri ne rimangono ai margini, in attesa che finalmente dia il via alla  canzone successiva, riuscendo a capire solo a sprazzi una lingua che seppur globalizzata non è la propria.

Qualcuno mi ricorda che anche Springsteen nelle sue serate a Broadway aveva raccontato il tutto in un memoir di parole e musica fuse insieme; certo, aggiungo io, ma quella era la confessione di un americano a Manhattan, non quella di un americano a Milano, in un paese diverso che non parla la stessa lingua. Il suo verboso flusso di coscienza avrebbe giovato di più con una considerazione diversa del contesto, ma è fuori di dubbio che Ryan Adams sia un cavallo pazzo impossibile da imbrigliare. Ed è naturale che sia così.

Il concerto parte To Be Young (Is To Be Sad, Is To be High) che Adams, accompagnandosi con una chitarra acustica con cassa tricolore, tramuta in uno scarno blues alla Son House, poi sciorina l’intero suo album d’esordio dove i sussulti sono per Oh My Sweet Carolina e Shakedown on 9th Street ma con le versioni, insistite su uno stesso mood intimista, sia con piano che con chitarra, che si ripetono senza guizzi. Sebbene la voce sia un miracolo, benedetta dall’eccezionale acustica del teatro, non colgo quel quid che fa la differenza, quella magia fa scattare l’emozione. Dopo più di un’ora, l’intervallo arriva come una manna.

La seconda parte risolleva il morale, Ashes and Fire e Dear Chicago preparano il terreno assieme alla cover di Lovesick Blues (Elsie Clark), Everybody Knows pescata da Easy Tiger e la rielaborazione flamenco di Gimme Something Good  innestano una marcia diversa, poi Adams scende dal palco, sale le scale della platea, si confonde col pubblico e regala una bella versione di I’m So Lonesome I Could Cry di Hank Williams. È uno dei momenti topici della serata ma il generoso pubblico già nella prima parte aveva riservato ad ogni canzone una sentita ovazione, nonostante siano diversi quelli che hanno abbandonato il teatro nell’intervallo e il mio vicino di poltrona, dopo che per un’ora si è sperticato in applausi, si conceda un meritato pisolino.

L’artista ringrazia e incita i presenti a richiedere se desiderano canzoni con pianoforte o chitarra, si complimenta con l’acustica del Dal Verme e dopo To Be Without You regala una commovente rilettura della Idiot Wind del Dylan di Blood on The Tracks, contorta, sofferta, persa e poi ripresa, per il sottoscritto l’apice della serata. Da quel capolavoro che è Gold arriva New York, New York, la interpreta seduto al pianoforte ma è analcolica rispetto all’originale, c’è ancora spazio per When The Stars Go Blue e Come Pick Me Up, poi i ringraziamenti, gli inchini e tutti in piedi per un fragoroso applauso.

Troppo lungo, troppe parole, poco scorrevole specie la prima parte, genio e sregolatezza e anche un po’ di noia, almeno per chi scrive.

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