Un tempo, a Milano, un concerto come quello di questa serata si sarebbe svolto al Lo-fi. Oggi, purtroppo, quel locale che, pur tra qualche difetto, non ultimo una qualità audio non certo eccelsa, ha rappresentato molto per gli appassionati di certe sonorità, non c’è più. Per fortuna, però, i ragazzi dietro a buona parte delle serate lì organizzate non si sono certo arresi e hanno trovato il modo di portare il loro verbo in altre situazioni. Con profitto, tra l’altro, almeno a giudicare da un Santeria Social Club che stasera risulta strapieno.
Ad aprire ci sono i Cloakroom, trio del nord dell’Indiana con un album, qualche singolo e un Ep alle spalle. Il loro è un’insolito melange di shoegaze/emo, inserito in una cornice stoner iper distorta. Il primo elemento è portato essenzialmente dal cantato e dalla chitarra di Doyle Martin, mentre sono il basso di Bobby Markos e la batteria di Brian Busch a imporre un vigore schiacciasassi alle loro canzoni. Sono parsi interessanti anche dal vivo, anche se dei suoni fatti con scarsa perizia (da dove ero io si sentivano solo basso e batteria) hanno un po’ vanificato i loro sforzi.
Cosa non accaduta per i titolari dello show, i Russian Circles, i cui suoni sono invece risultati essere assolutamente perfetti. Il trio di Chicago, forte della pubblicazione dell’ultimo Guidance, sesto album per loro, prodotto da Kurt Ballou dei Converge, ha dato vita ad uno show vivido e potentissimo, certamente d’impatto, eppure non privo di quegli slanci visionari che da sempre sono una delle caratteristiche del post-rock, genere del quale loro possono essere considerati gli alfieri più metallici e tonitruanti.
Immersi in una perenne nuvolaglia, con flash luminosi sparati alle loro spalle, poca o nulla interazione col pubblico, i tre hanno dato vita ad una tempesta di fuoco attingendo da buona parte della loro discografia. Ogni pezzo è introdotto da un bordone preregistrato, cosa che permette al chitarrista Mike Sullivan e al bassista Brian Cook di accordare i loro strumenti e di settare le mastodontiche pedaliere d’effetti ai loro piedi. Straordinari i suoni di chitarra tirati fuori da Sullivan, un musicista a suo agio nei riff come negli sprazzi più atmosferici, capace di tratteggiare liquide verticalizzazioni sonore anche con un accorto uso del tapping. Cook non è da meno, dividendosi, spesso nello stesso pezzo, tra basso dalle distorsioni monstre, chitarra, basso a pedale e tastiera. Alle loro spalle, inarrestabile e autentica macchina da guerra, Dave Turncrantz racchiude il tutto picchiando come un forsennato su piatti e tamburi.
Apertura evocativa e lirica con Asa, poi spazzata via dal turbinio oscuro di Votel, dall’epica fatta di tensione e rilasci di una metallica Deficit, dal gorgo di distorsione di 309, dalla visionarietà mogweiana di Afrika, da una Harper Lewis in bilico tra raffinatezza e aggressività, stessa cosa che si potrebbe dire per una 1977 lanciata in una tesa ed inquieta cavalcata sonora o per una Mota anch’essa cangiante e caleidoscopica. Set chiuso dalla bellissima, avvolgente e melodica Mlàdek, prima del trionfo finale, nell’unico encore, con una Youngblood perfetta per un horror carpenteriano e che ha spazzato via definitivamente quello che rimaneva dei padiglioni auricolari.
Davvero una grande live band i Russian Circles. Ci voleva sul serio questa bella botta!