Era uno degli appuntamenti che trovavo più intriganti di questa estate ricchissima di concerti ovunque, a chiusura di una tre giorni che ha visto scorrere in sequenza un gigantesco Neil Young, una meravigliosa Lucinda Williams, per arrivare, appunto, a Robert Plant. Una leggenda, una voce straordinaria, un presente fatto di dischi comunque intriganti, vedasi il bellissimo Rising Sand, inciso con Allison Krauss, e di prove di più lenta assimilazione, come il recente Lullaby and…The Ceaseless Roar.
Tanta gente a vederlo alla Summer Arena di Assago, tanti in palpitante attesa dei pezzi degli Zeppelin, pochi, almeno a sentire decine di commenti a conoscere la produzione solista, almeno la più recente. E, mi spiace dirlo, il concerto è stato deludente, un compitino svolto senza entusiasmo, con molta professionalità, ma privo di emozioni. La voce in buona parte c’è ancora, la presenza scenica idem, ma lascia perplessi la scelta di voler fare, con rare eccezioni, una sorta di melange che si regge sulle sonorità del goje, una sorta di rudimentale violino africano, che è andato a fondere canzoni proprie e non con quelle dei Led Zeppelin, come avvenuto per Whola Lotta Love ed in Dazed And Confused.
Pare che Plant si sia inerpicato su percorsi alla Peter Gabriel. Ma là dove Gabriel risulta essere comunque credibile, Plant non dà la stessa sensazione, restando lontano da un risultato che possa definirsi quantomeno convincente. Così si parte con atmosfere tendenti ad un sound che veleggia dalle parti del continente africano (e va bene!), ma con l’aggravante di una tastiera, suonata da John Baggott, che sinceramente riesce ad essere insopportabile in certi passaggi, nel voler creare effetti inutili, dal valore aggiunto pari a zero. E sì che i musicisti (The Sensational Space Shifter) sono certamente bravi, ma, anche qui, il loro apporto è privo di un minimo di pathos e coinvolgimento.
Il concerto si è aperto pescando proprio dal disco più recente con Poor Howard, seguita da Turn It Up. Ma la prima scossa arriva quando parte Black Dog, cui il pubblico presente tributa una vera e propria ovazione. Rainbow è uno dei momenti migliori del disco, così come anche live. What Is And What Should Never Be riporta ai fasti di Led Zeppelin II. No Place To Go, un classicone, sfocia in una Dazed And Confused che finisce con l’essere solo accennata, visto che si torna velocemente al pezzo precedente. All The King Horses è un pezzo che da anni appare con regolarità nelle scalette di Plant. Babe I’m Gonna Leave You mette in mostra i limiti della voce di Plant che non può, per ovvie ragioni, arrivare più alle vette di un tempo. A chiudere il set arrivano I Just Want To Make Love To You / Whola Lotta Love / Hey Bo Diddley, fuse in un unico pezzo che lascia perplessi. I bis vedono servite il classicissimo Bluebirds Over The Mountain (non saprei tenere il conto di quante volte l’ho sentita proposta da artisti diversi), fusa (ma perchè??) a Rock And Roll.
Il finale è finalmente degno delle aspettative con una bellissima riproposizione di Going To California, finalmente intera e mirabile nella rispettosa esecuzione. Il tutto per un’ora e venti scarsa, tanto che mi è ironicamente venuto alla mente un confronto con Van Morrison ed il suo orologio sul palco. I fans non gradiranno ma il sapore finale è quello di una occasione persa. Peccato.