Eleganza, compostezza ma anche profondità, calore e gusto sono le sensazioni provate dopo aver assistito al concerto di Robert Plant nell’incantevole Teatro Sociale di Como, una piccola Scala dove poter apprezzare a pieno una musica intima, ridotta ai minimi termini seppur intensa e arricchita da una moltitudine di sfumature sonore che l’hanno portata ora nel folk inglese, ora nel gospel, ora in lontani echi celtici, ora nel blues, ora nel folk-rock e in un country del tutto anomalo, ora nella musica californiana di gloriosa memoria.
Un simile set ha bisogno di un’acustica perfetta e il teatro è l’habitat adatto per gustarla in tutte le sue pieghe. Che poi sul palco ci sia un gigante come Robert Plant, con uno sbrigativo look di camicia a quadri e pantaloni neri, come se si trovasse in una taverna gallese piuttosto che in una bomboniera ottocentesca sopravvissuta alla modernità, tutto torna, perché la serata sia di quelle che rasentano la perfezione assoluta. Tranne il costo del biglietto, inspiegabilmente trovato il giorno prima del concerto, dopo che questo era andato sold out mesi fa, poche ore dopo l’apertura delle vendite. Mi sono trovato in un comodissimo e accogliente palchetto di fronte al palco, con due tizi vicini che avevano avuto la stessa sorte, acquistato biglietto il giorno prima, addirittura uno dei due era volato il giorno stesso dal Dorset in Inghilterra ed era estasiato dalla location.
Detto questo, lo spettacolo è valsa la spesa, novanta minuti di musica distillata con cura e accorgimenti, raffinata nella sua sobrietà, lontana dall’essere un esercizio di stile, piuttosto un emozionante set che una rockstar senza tempo riesce a tradurre in qualcosa di intimo, come se fosse un piatto di cucina tradizionale cucinato da un grande cuoco, ma con ingredienti semplici senza alterarne la genuinità e il sapore.
Con lui la cantante portoghese Suzie Dian, incantevole nelle sue delicate movenze, candida nel suo folk in stile Gillian Welch, di cui ha coperto una deliziosa Orphan Girl. Suzie e Plant si guardano negli occhi, si muovono con discrezione, lui sui ritmi celtici accenna qualche passo di danza, curano le loro vocalità con la precisione di un orologiaio, dietro di loro un batterista, Oli Jefferson, che dosa con sapienza battiti e colpi decisi, e due chitarristi, Tony Kelsey, anche col mandolino, e Matt Worley, anche col banjo, che seduti tessano la tela a tratti tutta acustica, altre volte scarabocchiata con qualche pennellata acida ed elettrica, dell’intero show.
Ci sono canzoni che arrivano dalla tradizione come The Cuckoo, Gospel Plow che Dylan incluse nel suo primo album del 1962, As I Roved Out arrangiati dai Saving Grace, questo il nome della band gallese, con misura e decisione, a tratti scarnificandole fino ad arrivare all’ossatura dell’originale e lasciando ai due cantanti la bravura di cantarne il sospiro, la profondità emotiva del quasi silenzio. Ci sono cover che non ti aspetti come una struggente It’s a Beautiful Day Today dei Moby Grape, introdotta da Plant con un particolare riconoscimento e apprezzamento alla musica californiana degli anni sessanta, come la magica For the Turnstiles del Neil Young di On the Beach trasformata in un folk-rock che travalica gli anni in cui è stata scritta e suona come la cosa più attuale che possa fare oggi un gruppo indie, e succede la stessa cosa quando viene rivista Everybody’s Song dei Low.
Ci sono arpeggi di classe, qualche bordone che rimanda al folk ancestrale e poi salutati dall’applauso di un teatro gremito ci sono i brani che Plant si è portato a Como con il dirigibile. Four Sticks è piazzato nella prima parte dell’esibizione, mentre la commovente Friends la chiude prima dell’encore, In mezzo ci sta, in una giornata segnata da pioggia insistente, una meravigliosa The Rain Song nella quale Plant, la cui voce a 76 anni è ancora un miracolo di espressività, proprio nell’impennata con cui la canzone si inerpica manifesta un leggerissimo calo di tono, levigato dalla fisarmonica di Dian e dal gioco di chiaroscuri vocali che i due immediatamente intrecciano.
Poi, prima del finale a cappella di And We Bid You Goodnight, arriva il tradizionale per antonomasia reso celebre dai Led Zeppelin. Plant e i Saving Grace regalano una lezione di cosa significhi l’arte dell’arrangiamento, rispettando l’originale ma nel contempo riuscendo ad essere intimi e coinvolgenti: Gallows Pole difatti, con il breve cameo di Black Dog, immerge il folk in un bagno di rock, sancendo una musica che non conosce tempo e barriere, ma solo sentimento e bellezza. Serate così non si dimenticano facilmente.