L’estate luganese è ormai da molti anni contrassegnata da una serie di eventi che rendono la cittadina svizzera un posto assai piacevole in cui recarsi, non solo per bellezza della città in sé e per il contesto naturalistico in cui è inserita, ma, per l’appunto, anche per via dei numerosi appuntamenti che si susseguono per un mese circa tra la fine di giugno e il primo di agosto. Sotto il cappello di quello che viene definito Longlake Festival sono in realtà diverse le manifestazioni e in molte di esse è la musica ad essere in primo piano: dal più “istituzionale” Estival Jazz allo sbarazzino Buskers Festival (dove quest’anno ho avuto modo di vedere una grande performance dei fenomenali Meridian Brothers, avant cumbia e molto altro da Bogotà, Colombia; datemi retta, ascoltate i loro dischi), ce n’è sempre davvero per tutti i gusti.
Fiore all’occhiello del Longlake, per tutti gli appassionati di rock in senso ampio, è però il ROAM Festival, evoluzione di quello che un tempo si chiamava Rock’n’More, giunto alla sua seconda edizione e ben intenzionato a posizionare Lugano tra le città svizzere che contano a livello musicale. Buona parte del merito va al suo direttore artistico, quello stesso Filippo Corbella che già cura la programmazione della rassegna Raclette al Foce durante l’anno, e che d’estate porta la sua ambiziosa visione musicale anche all’aperto, nella splendida cornice del Parco Ciani dove il festival si svolge.
Che il ROAM abbia intenzione di diventare qualcosa di grosso sul serio è testimoniato dall’edizione 2018 dove, oltre alla serata afro con Bassekou Kouyaté e BKO, a quella più pop con Amber Run, Novo Amor e Ed Prosek e a una quinta sera gratuita con band locali, sono sfilati pezzi da novanta quali Slowdive e Mogwai, per lo stesso Corbella, con cui ho avuto modo di parlare alla fine di uno dei concerti, una sorta di sogno diventato realtà. Si perché, se le cose andranno come devono andare, visto il successo di questa, dalla prossima edizione il ROAM ha tutte le carte in regola per diventare un festival ancora più ricco e un vero punto di riferimento per il sud della Svizzera.
Detto questo, io sono purtroppo riuscito a presenziare soltanto nelle serate con Slowdive e Mogwai, la prima e la quarta. Particolare rammarico per essermi perso quella con Kouyaté, nelle parole di Filippo, particolarmente emozionante, anche se sotto una pioggia torrenziale e con un pubblico non certo da grandi occasioni. Pubblico che invece ha senza dubbio riempito gli spazi per i Mogwai, un pelo sotto le aspettative per quello che riguarda gli Slowdive.
Partiamo da questi ultimi. Nell’ultimo anno è la quarta volta che mi capita di vederli dal vivo e, devo dire, ogni volta è stata un’emozione. A parte un fastidiosissimo chiacchiericcio da parte di una larga fetta del pubblico, che mi ha costretto a spostarmi più volte, anche il concerto di stasera non è stato da meno. La band è ormai è in tour da un bel po’ ed è rodatissima. La scaletta non è granché diversa da quella delle altre volte in cui li ho visti, una setlist dove vengono mescolati abilmente vecchi classici e pezzi nuovi, questi ultimi ormai perfettamente armonizzati al vecchio repertorio. La loro musica è attraversata da intrecci visionari di rumore chitarristico (Neil Halstead e Christian Savill, ma a volte anche Rachel Goswell), ma rimane quasi sempre sognante, sulle ali di una musica fluttuante che come sempre, in questo tour, ha il suo trionfo nel finale estatico di Golden Hair, cover di Syd Barrett che gli Slowdive incisero all’inizio della loro carriera. Un’ora e venti circa di grande musica per una band il cui ritorno in pista pare essere una volta tanto tutt’altro che effimero.
La serata dei Mogwai si apre con la performance del chitarrista e sperimentatore Christian Fennesz. Forse è un po’ passato il periodo in cui era sulla cresta dell’onda con dischi bellissimi quali Endless Summer o Venice, ma il musicista austriaco è ancora in grado di portarci via con le sue partiture in cui drones chitarristici e glitch elettronici si mescolano nel dar vita a soundscapes sonori sempre intrisi di una sorta di malinconica poesia, quasi una sorta di vibrante e distorta ambient music per animi romantici.
Terminato il suo set, arrivano sul palco gli scozzesi e si entra subito nel gorgo della loro musica col ripescaggio di New Paths To Helicon, Pt.1. Al contrario degli Slowdive, i Mogwai tendono a cambiarle molto spesso le loro scalette e anche stasera, a fianco di alcuni pezzi tratti dal loro ultimo, ottimo album, andranno a tirare fuori qualche chicca in grado di solleticare i tantissimi fan venuti qui da ogni dove. Estraggono dal cappello pezzi come Hunted By A Freak, Kids Will Be Skeleton o I’m Jim Morrison, I’m Dead, anche se il pezzo forte, come vedremo, se lo terranno per la fine. Come le ultime volte in cui mi è capitato di vederli, anche stasera prediligono il loro versante più rock e potente, con poco spazio dedicato alle derive elettroniche di qualche anno fa. L’apoteosi lo si ha come sempre con un pezzo ormai immancabile dalle loro scalette quale Rano Pano, un’affastellarsi di riff che non lasciano scampo e con uno dei finali di concerto più epici che mi sia capitato di vedere. Prima spazzano via tutto quello che hanno di fronte con i pieni e i vuoti di Mogwai Fear Satan, un pezzo che ogni volta che c’è vale da solo il prezzo del biglietto, non fosse che nel finale rincarano la dose con una mastodontica, fluviale, febbrile e inattesa My Father, My King, pezzo suonato solo quattro volte negli oltre cento concerti di questo tour, che come uno schiacciassassi ha asfaltato le orecchie di quei pochi che erano sopravvissuti alle bordate del pezzo precedente. Un concerto davvero grandissimo, che conferma l’ottimo stato di salute della formazione (qui con Martin Bulloch tornato dietro i tamburi) e il loro status di live band straordinaria.