Praticamente tutte le recensioni che hanno trattato del ritorno discografico dei Quicksand, ventidue anni dopo il disco precedente, hanno tirato in ballo quasi una sola cosa: gli anni ’90. Ad ascoltare Interiors, l’album appena uscito su Epitaph, sembra non sia passato che un giorno dall’epoca del capolavoro Manic Compression e, nel caso abbiate dei dubbi, questa non è una critica bensì un complimento. Non hanno perso né la loro lucidità, né la loro forza i newyorchesi, tanto da suonare potenti e, in quella maniera perversa per la quale oggi praticamente tutto è contemporaneo, persino attuali, nonostante il loro evidente ricollegarsi al suono post-hardcore anni ’90, del quale loro furono tra i principali attori.
Che Interiors sia un ottimo album, lo ha dimostrato inoltre la resa live delle sue canzoni, le quali magari non sono state accolte proprio con lo stesso entusiasmo dei vecchi classici dal pubblico accorso, ma neppure hanno sfigurato, amalgamandosi alla perfezione nella scaletta del concerto. Non più un quartetto a causa dell’abbandono del chitarrista Tom Capone, i Quicksand, pur riconfiguratisi come trio – Walter Schreifels a voce e chitarra, Sergio Vega a basso e chitarra baritona e Alan Cage alla batteria – hanno comunque riversato sull’audience, discretamente numerosa, una sana e rinfrancante ondata d’energia a suon di vivificanti chitarre elettriche.
L’attacco, tanto per mettere le cose in chiaro, è con una sequenza serrata di brani tratti dal loro esordio, un’arrembante susseguirsi di pezzi amatissimi quali Fazer, Too Official, Head To Wall, Unfunfilled e Freezing Process, che ovviamente mandano in estasi quanti non aspettavano altro. Schreifels è chiaramente contento di essere sul palco, è sempre sorridente, energico, salta e balla, lancia fendenti e riff con la sua chitarra, che quando parte il wah-wah assumono contorni addirittura psichedelici. Vega riempie gli spazi con il suo basso panzer, mentre Cage è un batterista all’apparenza poco appariscente, eppure preciso, potente, che non perde un colpo.
I primi nuovi pezzi arrivano con Illuminant, Warm And Low, Lie And Wait, tutte notevoli come le altre del nuovo disco (solo Normal Love m’è parsa un po’ spenta), ma è chiaro che il tutto s’infiamma quando arrivano i pezzi di Manic Compression, cose come Thorn In My Side, Brown Gargantuan, Landmine Spring o Skinny, oltre che con gli altri estratti dall’esordio Slip, alla fine il disco più saccheggiato.
Una performance notevole e per nulla nostalgica insomma, anche se a vederli eravamo certamente di più quelli ad aver passato i quaranta che non gli altri. In apertura gli indie-rockers No Joy, non male, anche se penalizzati da suoni, quantomeno dove mi trovavo io, pessimi (in pratica non si sentiva quasi la voce).