Sono stati la cinghia di trasmissione tra la Swingin’ London ed il nascente progressive rock e con un paio di loro canzoni, A Whiter Shade of Pale e Homburg, hanno fatto innamorare un’intera generazione, ma dopo la golden era si sono persi in continui cambi di formazione, nel declino e nello scioglimento del 1977, in drammatiche scomparse (il batterista B.J Wilson) e in una perniciosa causa sui diritti di A Whiter Shade of Pale intentata (e vinta) da Matthew Fisher, l’autore del celebre assolo di Hammond e Gary Brooker, il firmatario del pezzo.
Negli anni novanta i Procol Harum si sono riuniti attorno al leader Gary Brooker e hanno ricominciato sporadicamente a incidere dischi e a fare concerti. L’occasione di vederli dal vivo a Bellinzona all’interno della kermesse del Beatles Days ha rimesso in circolo in me vecchi ricordi e sebbene non sia mai stato un grande fan per via di un rock barocco e sinfonico che spesso stride col mio background “filo americano”, ho sempre riconosciuto in loro una acuta originalità nel trattare con equilibrio, romanticismo ed eleganza una materia che dopo di loro sarebbe scivolata nel prog. Quindi non me li sono lasciati scappare, ma non avevo fatto i conti con la dispettosa climatologia di questa torrida estate che proprio nel momento in cui la band inglese sarebbe dovuta salire sul palco ha scatenato un nubifragio su Bellinzona che ha rischiato di mandare a carte e quarantotto tutta la serata.
Saltato l’opening act dei Running Roosters, i Procol Harum sono entrati in scena quando la pioggia ha allentato la sua furia ma hanno dovuto ridurre il loro set ad un’ora scarsa di musica visto i problemi che l’acqua ha provocato al mixer, al palco e agli strumenti. Alla fine, nell’ultima acclamata versione, pur magistrale nella sua umidità, di A Whiter Shade of Pale introdotta da una inaspettata medley di When a Man Loves A Woman di Percy Sledge e No Woman No Cry di Bob Marley, uno dei roadie sostava vicino a Brooker proteggendo lui ed il pianoforte con un ombrello. Peccato, perché quello che si è visto e sentito è stato davvero interessante, il gruppo non ha perso smalto sebbene della formazione originaria sia rimasto il solo Brooker e la sua voce ed il suo pianoforte sono ancora in grado di incantare, così caldi, lirici, avvolgenti, solenni. Con Gary Brooker, viso rugoso alla Joe Cocker, giacca bianca da englishman pronto ad una importante serata di whiskey e poker, simpatico e spiritoso nelle presentazioni, c’erano il chitarrista George Whitehorm, con la band dal 1991, fisico e look hard-rock ma distante anni luci dall’inventiva di un Robin Trower, il bassista Matt Pegg figlio del più famoso Dave dei Fairport Convention, l’organista Josh Philips, diligente nell’evocare quello che fu il lavoro di Matthew Fisher, ed il bravo batterista Geoff Edwin Dunn già in diversi album di Van Morrison, tra cui l’epocale A Night In San Francisco.
I 400 che hanno sfidato la pioggia non vedono l’ora di sentirli e quando il concerto inizia sono applausi immediati, Kaleidoscope scioglie gli indugi e poi è subito Homburg. La voce di Brooker è intatta, calda e melodiosa, lui è i Procol Harum e dirige l’orchestra con sapienza lasciando pochi assoli al chitarrista ed invitando l’Hammond di Philips al suo lavoro di ricognizione classica. Ringrazia tutti e si dice onorato di essere al Beatles Days infilando il refrain di Lucy In The Sky with Diamonds tra Pandora’s Box e Still There’ll Be More, poi racconta la storia della morte di Sam Cooke con They Had To Shoot Him Down prima di arrivare all’highlights dello show, una sfavillante e trascinante versione di Conquistador che ha il potere di lievitare i presenti ma scatenare di nuovo la pioggia. Nessuno si sogna di danzare cantando no rain, no rain, l’età è abbondantemente oltre gli anta e i reumatismi hanno sostituito l’innocenza di un tempo. Ma nonostante ciò il pubblico è partecipe e coinvolto nel tema tristanzuolo e romantico di A Salty Dog e nella possente versione di A Whiter Shade of Pale che manda a casa tutti felici e fradici.