Per quanto sia opinione comune che i bei tempi andati siano per definizione migliori di quelli attuali, pur tra i tanti e conosciuti problemi, solo un pazzo potrebbe sostenere che in giro non ci sia non solo dell’ottima musica, ma addirittura della musica importante. In questo senso, il 2016 si sta rivelando un anno assolutamente straordinario, con miriadi di ottimi dischi (nei generi più disparati; e sarà davvero difficile stilare le classifiche di fine anno) e almeno tre album che mi sento di dire fin d’ora che rimarranno, che non verranno dimenticati da qui a poco, come usualmente avviene: mi riferisco al testamentario Blackstar di David Bowie; al tragico e doloroso Skeleton Tree di Nick Cave & The Bad Seeds e, ovviamente, a The Hope Six Demolition Project di PJ Harvey.
Non è qui il caso di tornare a fare una disamina dell’album in oggetto – vi consiglio però un fantastico articolo del giornalista Carlo Bordone al riguardo, che potete leggere sul suo blog – perché il punto, qui, è che finalmente Polly è arrivata col suo tour anche in Italia. Ovvia l’accoglienza trionfale, quantomeno qui a Milano, con un Alcatraz sold out, pieno all’inverosimile.
Saggia la scelta di non appiccicare nessun gruppo di supporto alla sua esibizione, facendo in modo che potesse brillare in tutta la sua unicità, senza nessuna distrazione. Quando le luci si spengono in sala, è quindi solo per dare inizio ad un’ora e mezza che sarà di pura e assoluta magia. Polly e i suoi nove musicisti entrano sul palco come se fossero una marching band, uno in fila all’altro, seguendo – e sarà una costante di tutto lo show – una coreografia semplice, ma sempre studiatissima in ogni gesto, molto efficace, grazie anche all’interazione altrettanto raffinata con le splendide luci (bello, ad esempio, il modo in cui le silhouettes dei musicisti si stagliavano sul quadrante alle loro spalle alla fine di ogni brano).
È Chain Of Keys ad aprire la serata, brano tratto dall’ultimo album, il quale verrà suonato per intero. La scaletta è infatti costruita quasi esclusivamente attorno agli ultimi due dischi, gemelli diversi in una discografia altrimenti sempre ultra cangiante. Appare evidente la volontà di costruire uno spettacolo coerente ed organico, capace di creare senso attraverso una sequenza di canzoni che devono stare una a fianco all’altra. In questo senso, se l’accostamento tra i pezzi di The Hope Six Demolition Project e quelli di Let England Shake potrebbe apparire quasi ovvio, vista la comunanza di temi, non è affatto casuale la scelta degli altri pezzi eseguiti, a partire dal disagio esposto dai due brani tratti da White Chalk, When Under Ether e The Devil, alla memorabile riproposizione di alcuni classici – una potentissima 50ft Queenie, Down By The Water, To Bring You My Love – da una parte brani doverosamente immancabili nei suoi concerti, dall’altra perfettamente armonizzati anche liricamente al resto della scaletta.
Musicalmente parlando, è stata un’ora e mezza da brivido continuo. PJ, minuta e magrissima, pur nel suo apparente distacco, mantiene un fascino conturbante, una bellezza che non è solo banalmente estetica, un carisma che quasi ti impedisce di immaginarla alle prese con la vita reale di tutti i giorni, un po’ dea, un po’ strega sciamanica. Vocalmente non sbaglia nulla: la sua voce si muove su più registri ed in ogni frangente stupisce, emozionando per calore e intensità, trovando il modo di far fluire le sue intenzioni direttamente verso il cuore. La band alle sue spalle è di quelle spettacolari: da veterani assoluti come John Parish, Mick Harvey e i due Gallon Drunk James Johnston e Terry Edwards, passando per i “nostri” Alessandro “Asso” Stefana e Enrico Gabrielli (un’ovazione speciale per lui, visto che giocava in casa), fino a grandissimi musicisti come Alain Johannes, Jean-Marc Butty e Kendrick Rowe. Il suono è eccezionalmente vivido (i difetti dell’Alcatraz, riscontrati in qualche occasione, stasera non si sono fatti sentire), magmatico, potente, quasi mai tentato da appropriazioni solistiche (memorabile eccezione, il virulento assolo di sax di Edwards in The Ministry Of Social Affairs). Qualcuno ha riscontrato addirittura un’eccessiva perfezione, non una sbavatura, nessuna tentazione improvvisativa (che pure questa band avrebbe potuto facilmente concedersi), ma credo sia stata una scelta precisa della Harvey, come se qualcosa in più avesse potuto rovinare l’equilibrio tra testo e musica delle varie canzoni.
Per il sottoscritto, lo si sarà capito, un concerto assolutamente memorabile, di quelli che ti rimangono dentro anche nei giorni seguenti. Venticinque anni di carriera e nulla da buttare, uno dei musicisti più importanti della sua generazione.