Foto © Rodolfo Sassano

In Concert

Phoebe Bridgers + Clairo live a Sesto San Giovanni (MI), 5/7/2022

Pur frequentando un numero spropositato di concerti, devo dire che mi è sempre abbastanza difficile prevedere quanto e che tipo di pubblico troverò una volta arrivato sul luogo dell’evento. Per quello di Clairo e Phoebe Bridgers del 5 luglio al Carroponte di Sesto San Giovanni – proposto come show con doppio headliner – potevo anche immaginarmi una buona affluenza di gente, ma forse non così tanta da riempire abbondantemente l’ampio spazio di fronte al palco, risultato alla fine gremito da un pubblico non solo numeroso, ma in larga parte giovanissimo e parecchio partecipe, che conosceva a memoria le canzoni di entrambe le cantautrici americane.

Un pubblico inoltre decisamente internazionale – non dico che si sentiva parlare più inglese che italiano, ma quasi – e capace di far saltare i luoghi comuni circa il disinteresse delle giovani generazioni verso le sonorità pop rock di cui spesso si sente parlare in giro. Più semplicemente, è naturale che le ragazze e i ragazzi di vent’anni trovino in musicisti loro coetanei degli interlocutori più appropriati a cui rivolgersi, dandogli le loro preferenze anche quando, come in questo caso, la musica proposta è incredibilmente vicina a quella sentita dai loro genitori o a quella fatta da musicisti ignorati solo perché più vecchi di loro.

Se dico queste cose, forse vaneggiando, è perché spesso, soprattutto durante il concerto della giovanissima Clairo – nata ad Atlanta quasi venticinque anni fa e diventata famosa grazie a un video virale caricato su YouTube di una canzone, Pretty Girl, cantata nella sua cameretta da adolescente quando di anni ne aveva diciassette (ad oggi 83 milioni di visualizzazioni) – mi sono sorpreso dell’entusiasmo strabordante espresso dalla parte più giovane dell’audience verso una musica che era puro cantautorato pop rock anni 70, qualcosa di accomunabile a una sorta di Carole King neanche troppo aggiornata ai giorni nostri, offerto da una formazione in cui gli strumenti cardine erano piano, sassofono, flauto e chitarre.

Accompagnata da una band numerosa, almeno sette elementi, Claire Elizabeth Cottrill, questo il suo vero nome, si è presentata sul palco con una maglietta con su scritto Italia, il viso pulito e sorridente ancora d’adolescente e una semplicità naive tale da renderla automaticamente molto simpatica. Nella cinquantina di minuti in cui è stata sul palco ha attinto dal repertorio sia dei due album pubblicati finora – Immunity del 2019 e Sling del 2021 – che dall’EP Diary 001 con cui esordì nel 2018, suonando più pop e sbarazzina quando ha affrontato i vecchi brani (4EVER e Pretty Girl dall’EP soprattutto) e invece incredibilmente matura e solida quando le sue canzoni si sono mostrate più aderenti a un più classico e intimista formato cantautorale, ben servito da una band capace di lanciarsi anche in qualche sana improvvisazione e in alcune gustose derive strumentali. 

Il pubblico, come dicevo, ha risposto con grandissimo entusiasmo e passione, esplodendo letteralmente quando sul palco è apparsa a duettare con lei Phoebe Bridgers – le due da tempo sono amiche – durante una Bags che già era il pezzo di punta di Immunity e che qui è diventata pertanto irresistibile, come buona parte di uno show che è stato per me una discreta sorpresa.

Se ero qui stasera, però, era soprattutto per vedere e testare live Phoebe Bridgers, cantautrice della quale ho apprezzato sia i due dischi solisti – Stranger In The Alps del 2017 e Punisher del 2020 – che le partecipazioni in band quali Boygenius (con Julien Baker e Lucy Dacus) e Better Oblivion Community Center (a fianco di Conor Oberst), ma che in una mia ipotetica classifica personale relativa al cantautorato femminile contemporaneo probabilmente starebbe un gradino sotto a tipe come Sharon Van Etten o Angel Olsen, le quali hanno già avuto modo di tratteggiare un percorso artistico per lei invece ancora all’inizio e in divenire.

E aldilà della scelta di eseguire un set da festival – solo un’ora, tredici pezzi senza bis, un po’ pochetto – il suo è stato un concerto coinvolgente ed emozionante, convincente al 100%. Phoebe e la band salgono sul palco alle 22:45 in punto, tutti tranne lei agghindati con l’uniforme da scheletro a là Halloween che già compariva sulla copertina dell’ultimo album, e basta l’attacco con Motion Sickness per marcare la diversa caratura artistica e la più sostanziale maturità rispetto alla più giovane Clairo (che comunque ha solo quattro anni in meno). Le versioni live delle sue canzoni non si distaccano sensibilmente da quelle in studio, ma suonano comunque più piene e passionali, inducono al trasporto emotivo a alla catarsi emozionale, anche grazie a una sicurezza esibita con naturalezza e a una solida tenuta del palco.

A far la parte del leone, ovviamente, i pezzi di Punisher, disco suonato quasi per intero e le cui canzoni, sottolineate da un ottimo apparato visuale, semplici ma efficaci scenografie e ottimi giochi di luce, si sono mosse tra l’energia pop contagiosa di Kyoto, i rallentamenti spettrali di Punisher o l’intensità straziante di una Chinese Satellite, suonata dopo una sacrosanta invettiva contro la recente sentenza della Corte Suprema americana che rende possibile la revoca del diritto d’aborto in qualsiasi stato USA.

È un concerto fatto di chiaroscuri, reso memorabile dalla voce e dal carisma di una cantautrice capace di passare dagli accenti drammatici di Moon Song al passo più mosso e grintoso di ICU o Sidelines, di farsi folk con una Graceland Too lacerante o con una Georgia richiesta dal pubblico ed eseguita solo voce e chitarra, per poi giungere all’esplosione finale con la corale e bellissima I Know The End, nella quale si riunisce con Clairo e la sua band per quello che è il suggello trionfale dell’intero concerto. Brava, davvero!

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