Stando ai più esperti, Las Vegas è la città in cui i Phish hanno suonato di più in tutta la loro carriera; cosa strana, se si pensa che il quartetto del Vermont non ha mai frequentato troppo spesso la costa occidentale degli Stati Uniti. Solo per fare un esempio, la leg autunnale di questo tour si è aperta a Sacramento ed era dal 1996 che non ci suonavano.
Las Vegas però è speciale: da diverso tempo Trey Anastasio e compagni vi tengono un abituale run, tre o quattro spettacoli che hanno il loro culmine la notte di Halloween, quando allestiscono uno speciale set in costume dove risuonano album storici dalla prima all’ultima nota o propongono del materiale nuovo in anteprima (era successo ad esempio per Fuego, il loro disco del 2014). Quest’anno l’aspettativa era però maggiore del solito: nel 2019 il tour autunnale aveva fatto altri giri mentre nel 2020, come ben sappiamo, il Covid aveva impedito qualunque attività concertistica nel paese.
E allora eccoci qui, di nuovo alla MGM Grand Garden Arena, un palazzetto da sedicimila posti famoso soprattutto per gli incontri di boxe e tappa conclusiva di questa leg, 13 date che hanno toccato esclusivamente la West Coast, dalla California all’Oregon. I fortunati presenti sono dentro, noi come al solito davanti allo schermo, grazie all’efficiente staff del gruppo, che da qualche anno ne trasmette in diretta ogni singolo show e alla disponibilità dell’ufficio stampa, che ancora una volta ha dato al sottoscritto la possibilità di essere presente, seppure virtualmente.
Ecco dunque un racconto per sommi capi di quello che è successo.
Night One (28 ottobre)
Per la prima sera i nostri hanno in serbo una di quelle loro iniziative nonsense che tanto piacciono ai fan e che hanno contribuito a definire la loro immagine di band fuori dal comune. Si parte con la celebre composizione di Strauss Also Spracht Zarathustra, da tempo integrata nel loro repertorio e ribattezzata “2001”, visto che era stata usata da Stanley Kubrick per l’omonimo film. La tirano avanti un quarto d’ora abbondante, dopodiché si lanciano in una divertente 1999, il classico di Prince che, se pur vocalmente ben lontano dall’originale, riceve un trattamento più che degno, soprattutto nella parte delle improvvisazioni. Quando arriva 555 ne abbiamo la certezza: questa sera la setlist sarà composta unicamente da brani, originali o cover, che contengono dei numeri all’interno del titolo. Ma non è finita perché, come evidente dal trittico di apertura, la numerazione seguirà un ordine rigorosamente decrescente.
Se state cercando un senso in tutto questo, non fatelo.
46 Days è scontata quanto consolidata, la cover di Strawberry Letter 23 di Shuggie Otis è una delle migliori del concerto ed è anche l’unica di questa prima parte che non beneficia di una versione allargata, mentre si va in pausa con una sempre ottima Twenty Years Later.
Un primo set con poche canzoni, molto rilassato, poco spazio ai virtuosismi dei singoli componenti, maggiore attenzione al groove dell’insieme, tanta psichedelia, un indugiare di Page McConnell sui tasti dell’Hammond, Trey Anastasio che lo accompagna tenendo le note in sospeso.
La pausa è piuttosto lunga e quando si riprende, lo si fa da dove si era lasciato, visto che Seven Below presenta lo stesso andamento delicato e sognante. Più robusta è la hendrixiana If 6 Was 9, con una delle più belle Jam della serata, poi arriva una Five Years molto intensa, eredità di quando, sempre qui a Las Vegas, avevano rifatto proprio tutto Ziggy Stardust.
Il dover a tutti i costi aderire al criterio dei numeri li porta poi a spolverare chicche come Two Versions of Me, dal sottovalutato Undermind, un’esecuzione bellissima che è solo l’ottava dal 2003, anno dell’uscita. E con lo spoken onirico No2 si fa ancora meglio, visto che questa traccia ispirata alle cose più sperimentali del White Album è una delle primissime registrazioni del gruppo e la si sente davvero molto raramente; qui tra l’altro il protagonista è Mike Gordon, che oltre a cimentarsi dietro al microfono, accarezza le corde del suo basso con un trapano elettrico.
Contrariamente a quanto accade di solito, il secondo set contiene più canzoni e ci sono poche versioni lunghe. Tre canzoni dedicate al numero uno: Army Of One è particolarmente intensa e ha nella chitarra di Trey il suo punto di forza, My Sweet One è il solito divertente Country che lascia un po’ il tempo che trova, mentre First Tube è, ancora più che in altre sere, il momento in cui i nostri si lasciano andare a briglie sciolte, in una delle canzoni più rock della serata, dove si ha ben chiaro che la festa ha raggiunto il suo culmine.
Era abbastanza ovvio che sarebbe arrivata e difatti eccola lì: Character Zero che oltretutto quando c’è arriva alla fine, altra gran botta di energia e tutti a casa, prima che i bis propongano una sempre efficace Backwards Down The Number Line, atmosfere springsteeeniane e costruzione melodica ineccepibile.
Ci aspetteremmo che fosse finita qui e invece no: i nostri lasciano le loro postazioni, al centro palco vengono approntati dei microfoni ed ecco una divertente quanto ottimamente eseguita versione a cappella di Grind (ok, il titolo non contiene numeri ma il testo sì e parecchi!) con un finale demenziale in cui Mike Gordon si mette a cantare tutti i titoli delle canzoni presenti in scaletta questa sera… ancora una volta no comment.
Gran bel concerto, che non fa altro che far crescere le aspettative per quello che verrà dopo.
Night Two (29 ottobre)
Questa sera non c’è un tema particolare da seguire e la setlist sarà tutto sommato ordinaria; ciò non toglie che l’attacco con Olivia’s Pool, un brano del repertorio di Trey Anastasio raramente suonato con la band, ci faccia meravigliare. Partenza forte, quindi, con un bel rock tirato e allegro, il cantante e chitarrista che appare su di giri, scoppia a ridere appena inizia a cantare ed avrà un sorriso stampato in faccia per tutta la durata del brano. Subito dopo si rivolge al pubblico per salutare ed anche questo è inusuale: i Phish parlano pochissimo tra un pezzo e l’altro, spesso addirittura mai. Evidentemente è un’occasione speciale e loro lo sentono.
Il primo set è all’insegna dei vecchi classici: una Axilla II molto potente, con una Jam particolarmente onirica nella sua parte centrale ed un finale dove si spengono le luci e i nostri si godono l’effetto, indugiando pigramente sul riff principale. Poi Mike’s Song, tra le prime composizioni del gruppo, ovviamente cantata dal bassista Mike Gordon e con una bella coda che sfocia in I Am Hydrogen, quasi fossero un unico brano. È ancora Mike a dare il là al brano successivo, visto che un suo potente riff introduce Weekapaug’s Groove, che diventa immediatamente veicolo di una improvvisazione molto dinamica, col ritmo Funk della canzone sempre in primo piano.
È stato un inizio veramente scatenato, soprattutto se confrontato con quello della sera prima. Giusto quindi allentare la tensione con una meravigliosa Shade, prima che si viri verso sonorità elettroniche con I Always Wanted It This Way, Page grande protagonista anche dietro il microfono. È un brano minore ma molto efficace e la versione di questa sera è una gran bella versione, con un piacevole intarsio chitarra/tastiera nella parte centrale; poi sale, in un crescendo graduale e impercettibile, con Page che passa a martellare il piano e Trey che fa soli andando a pescare sempre di più nella parte bassa del manico. Nel frattempo scendono coriandoli e si crea la giusta atmosfera per il finale di set, ancora una volta poche canzoni e focus sull’improvvisazione.
Il secondo set si apre con John Fishman dietro al microfono per una divertente Ass Handed, uno dei tantissimi brani che hanno in giro e che non hanno mai fissato su disco. È più che altro uno scherzo, preludio a quella Tweezer che è uno degli autentici manifesti sonori del quartetto, ancora una volta è un’esecuzione monumentale, con quella che è probabilmente la migliore Jam della serata. Si alza il ritmo con la cover di Funky Bitch, il brano di Son Seals che è da anni in rotazione nel loro repertorio. E poi un altro grande classico come Reba, anch’essa impreziosita da una meravigliosa improvvisazione, soprattutto nell’ultima parte, dal grande gusto melodico.
Sand è uno di quegli episodi che compare più spesso nelle setlist e il rischio di darlo per scontato è forte; eppure la Jam di stasera è veramente ispirata e sfocia in maniera quasi impercettibile in Sigma Oasis, dopo un lungo indugio sugli accordi principali del brano precedente, per cui ce ne accorgiamo solo dopo un po’. È una versione meno anthemica del solito, più distesa, come ancora permeata dal brano di provenienza.
La chiusura è ancora una volta ad alto ritmo, con una scatenata Walk Away, di James Gang, con Page alla voce.
Nei bis, a sorpresa, arriva Julius, uno di quei pezzi che non era stato suonato nella leg estiva del tour, poi tutto finisce come da copione con Tweezer Reprise.
Il solito concerto dei Phish? Questa sera sì ma questa band non scende mai sotto il livello dell’eccellenza.
Night Three (30 ottobre)
Si parte con The Dogs, uno dei brani strumentali che aveva debuttato proprio qui a Las Vegas nel 2014, come parte della loro rilettura di Chilling, Thrilling, l’album di effetti sonori della Disney uscito nel 1964. È perfetto per scaldarsi, ritmi alti e Trey che si cimenta subito in una serie di soli molto efficaci. A ruota Ocelot, scontata ma sempre gradevole e Turtle in the Clouds (anche lei aveva debuttato qui, nel 2018) versione davvero stupenda, tirata e divertente, con tanto di tastiere in evidenza e balletto stupido di Trey e Mike nella parte finale.
Run Like An Antelope è una bella occasione per tuffarsi in una cavalcata strumentale molto efficace, la suonano da anni ma si capisce che se la godono ogni volta. Poi una Camel Walk saltellante e spiritosa e una Wombat particolarmente folle, versione lunga che dà il via a quella che sarà una delle pochissime Jam della serata, molto varia come mood, con una parte finale dal feeling “cosmico”, con Page che insiste sul Würlitzer.
Quando si arriva a Guyute, comincio ad essere assalito da un dubbio (era ora, direte voi): e se questa sera ci fosse un’altra serata a tema e il tema fosse quello degli animali? Non era così difficile arrivarci, in effetti, dopotutto Trey, con una buffa felpa con la foto di un maialino e Page, con una camicia decorata di motivi scimmieschi, avevano fornito due indizi decisamente eloquenti. E difatti, per tutta la sera si andrà avanti così.
Il passo successivo è un essere alieno, evocato dalla divertente Big Black Furry Creature From Mars, direttamente dal repertorio della primissima ora; e poi Shaggy Dog, impronta molto Sixties per un brano che non veniva suonato dal 2012.
È poi il momento di Dog Faced Boy, ballata tradizionale caratterizzata da ottime armonie vocali, che fa da preludio a due episodi tirati come The Sloth e Llama, che sono anche due classici che sanno come far muovere il pubblico.
Già che siamo in tema di animali, pare doveroso chiudere il set con I Am The Walrus, versione filologicamente accurata e gran divertimento.
Per il momento si è trattato di uno show con poche divagazioni strumentali e maggiormente incentrato sulle canzoni; sarà forse anche per questo che nella sua seconda parte, dopo l’apertura di Dog Stole Things, arrivi una delle poche Jam della serata, sugli accordi di Your Pet Cat, anch’esso tratto dal disco Disney di cui sopra. Rimane tuttavia un set piuttosto conciso, le canzoni sono tante e la durata media di ciascuna è decisamente contenuta. In successione arrivano Runaway Jim, un altro brano a tema canino, poi Piper e la sempre efficace Birds of a Feather. È poi la volta di Harpua, anch’esso, come i precedenti, un classico di vecchia data. A questo giro però diventa il pretesto per un lungo monologo di Trey, che sul tappeto strumentale degli altri racconta una storia surreale con un protagonista di nome Jimmy, e che ha come ingredienti cubi, ciambelle, poligoni dalla forma incerta e operazioni algebriche dalla dubbia correttezza (io non ne capisco nulla ma alcuni utenti del forum ufficiale della band hanno scherzato su questo), tutto questo con lo scopo di fornire indizi su quale sarà il disco che verrà coverizzato la sera successiva. “Non importa se non ci avete capito nulla – ha scherzato il chitarrista alla fine di questo contorto racconto – domani lo scoprirete”. E a giudicare dalle mille ipotesi che giravano nelle ore successive alla fine del concerto, il pubblico è effettivamente rimasto parecchio disorientato.
È già passato parecchio tempo ma c’è ancora tanto da suonare (e ci rendiamo nel frattempo conto di quanti brani con nomi di animali nel titolo abbiano in repertorio!): ecco dunque Bug, The Lizards (questa ero certo che sarebbe arrivata), una Farmhouse molto più sussurrata e minimale del solito, con un pianoforte bellissimo e dei soli di chitarra in tutta tranquillità. Sorprendentemente, è anche il brano che chiude il set, ma a giudicare dalla voglia che sembrano avere di suonare, dubitiamo che i bis saranno pura formalità.
E infatti. Dopo l’esecuzione di Vultures (anche questa l’avevo prevista), Trey finge le lacrime, dice apertamente che non se ne vogliono andare e deliziano la MGM con una splendida Sleeping Monkey: il pubblico canta in coro il ritornello e nel finale si infiamma, con l’entrata della sezione ritmica ed una parte di chitarra d’impatto e molto Old School. Poteva essere il finale perfetto ma non ne hanno ancora abbastanza e ci buttano dentro anche il rock blues di Possum, altro episodio abituale ma che in questo clima di continuo crescendo è più bella che mai.
Tre ore e venti di concerto, per il momento la data più lunga di questo run di fine tour. Tante canzoni, poche Jam e una setlist a tema che faranno di questo show un vero must have per i fan.
Night Four (31 ottobre)
Questa sera, come sempre la notte di Halloween, ci saranno tre set. Evidentemente l’attenzione del pubblico è tutta concentrata sul secondo, quello dedicato al disco da coverizzare, ma sarebbe sbagliato vivere la prima parte come un semplice antipasto in vista della portata principale: la band è carica e ha in serbo anche qui delle belle sorprese. Si parte con una selezione di brani che, a livello tematico, si sposano bene con l’atmosfera di questa ricorrenza: la strumentale Buried Alive apre le danze, seguita dalla cover dei Ween Roses Are Free, non così inconsueta nel loro repertorio (ha goduto anche di una release ufficiale, nel live Hampton Comes Alive del 1998), proposta perché nel testo si fa più volte riferimento alla zucca. Poi ci sono i 26 minuti di Ghost, tra gli highlight assoluti di questa quattro giorni e uno di quei momenti che fa capire perché questa band è così speciale. Non è una semplice collezione di assoli ma un viaggio collettivo e non premeditato, che tocca di volta in volta territori diversi; i quattro praticamente non si guardano ed è come se comunicassero telepaticamente, tanto sono in sintonia.
Si prosegue con Wolfman’s Brother e con la cavalcata di Kill Devil Falls, che ci ricorda come Joy, il loro disco post reunion, nel 2009, sia davvero uno dei migliori della loro carriera.
Terminata la parentesi orrorifica, il set si conclude con due classici molto amati come Free (bello il basso in apertura, anche perché raramente Mike si prende il suo spazio) e David Bowie, non in versione fiume come al solito ma sempre molto piacevole.
Ci siamo. Dopo una pausa più lunga del solito e il diffondersi dagli speaker di un brano tipicamente Synth Pop in stile Eighties (che non ho identificato), ecco aprirsi il sipario a rivelare uno stage che è stato completamente rimodellato a rievocare uno scenario fantascientifico. Quattro fasci di luce piovono dall’alto verso il basso e quattro ologrammi contenenti gli avatar dei musicisti scendono dal cielo, quasi fossero esseri provenienti da un altro pianeta. E difatti è così. Agghindati in costumi spaziali variopinti e fantasiosi (ovviamente quello di John Fishman ha un cerchio ben evidente sul casco, a rappresentare l’amata ciambella) si presentano come gli Sci-Fi Soldier, un gruppo extraterrestre proveniente dall’anno 4680 (guarda caso, hanno fatto notare i più attenti, la somma di tutti i numeri contenuti nelle canzoni suonate la prima sera, un numero che era stato anche citato nella folle versione a cappella di Grind). Per gli ottanta minuti successivi suoneranno le canzoni di un loro fantomatico disco intitolato Get More Down, una sorta di concept le cui vicissitudini sono state descritte in un fumetto realizzato per l’occasione e distribuito all’ingresso.
Al di là di queste bizzarrie, la musica è fantastica. Esattamente come fecero nel 2018 coi Kasvot Växt, ancora una volta la band si è inventata un alter ego immaginario e ne ha costruito da zero il repertorio, con una capacità mimetica veramente incredibile nel ricreare sonorità ed estetiche che non sono le loro. E le canzoni degli Sci-Fi Soldier sono molto complesse, in effetti: c’è un suono elettronico preponderante, con le tastiere che si ritagliano un certo ruolo e sono molto più spesse ed avvolgenti rispetto a quanto eravamo abituati. Le strutture non sono lineari, c’è una certa vena Prog nel passaggio da una sezione all’altra e le lunghe Jam che infarciscono i pezzi sono modellate da buffi versi digitalizzati e suoni elettronici che contribuiscono a creare un’atmosfera spaziale. La scenografia è bellissima, con due cerchi e due quadrati luminosi che si muovono costantemente alle spalle dei musicisti (adesso abbiamo capito meglio gli strambi riferimenti della sera prima), Pyros e animazioni di ciambelle che fluttuano nello spazio accompagnate da gigantesche tartarughe marine (ma perché?).
Nel complesso è un’esperienza da mal di testa, seppur bellissima, anche perché si tratta di materiale totalmente inedito e per nulla fruibile al primo ascolto. Ad ogni modo il pubblico sembra divertirsi molto e i nostri sul palco ancora di più.
Non voglio descrivere canzoni che ho ascoltato solo una volta, anche perché immagino che a breve, come successe tre anni fa, verrà rilasciata ufficialmente la registrazione del set (che è già disponibile per gli iscritti sulla piattaforma LivePhish) e allora tutti potremo farci un’idea.
Difficile tornare alla realtà dopo un trip del genere ma c’è un terzo set che ci attende. La pausa è ancora una volta molto lunga, necessaria per riprendersi, soprattutto per chi, come me, sta fissando uno schermo da ore.
Ed eccoli di nuovo, senza costumi, che si presentano semplicemente dicendo: “Siamo i Phish, siamo contenti di essere qui”. Attaccano Carini e ancora una volta è un’esplosione di energia, una Jam non importante come altre volte su questa canzone ma sempre molto efficace. Poi le acque si calmano con una dolce Lonely Trip e poi, ancora dal repertorio di Trey Anastasio, una roboante Soul Planet, uno dei momenti più densi e tirati del concerto, che incorpora anche un accenno psichedelico ad una delle loro outtake più recenti, Death Don’t Hurt Very Long.
Siamo agli sgoccioli: c’è ancora tempo per una sempre efficace Twist e per Drift While You’re Sleeping, pezzo forte del progetto Ghosts in the Forest, una delle cose musicalmente più belle composte da Trey Anastasio; anche stasera è di grande impatto, con le sue sezioni eseguite una dopo l’altra, una suite Dream Folk veramente intensa.
Il bis è tutto di Harry Hood, altro grande classico, una delle loro tracce più Prog, con le varie parti che sono intervallate da improvvisazioni con andamento sempre in crescendo. Esecuzione meravigliosa, intensità a mille, col pubblico che balla come se fosse alla prima canzone.
Che dire? Esserci stato sarebbe stato un privilegio, vederlo a distanza, nonostante tutto, è stato bello. Appuntamento adesso al Madison Square Garden di New York, per l’altrettanto tradizionale trittico di concerti di fine anno.