Anche se apprendo esistere fin dal 2006, come progetto della Cooperativa Edificatrice Ferruccio Degradi, solo di recente ho scoperto lo Spazio Teatro 89, un auditorium polifunzionale in periferia di Milano, tra la vecchia Baggio e San Siro a grandi linee, sede ultimamente di una programmazione concertistica parecchio interessante, curata per lo più (ma tutt’altro che esclusivamente) da Marco Monaci della libreria/negozio di dischi Volume e da un personaggio ben conosciuto qui a Milano come promotore musicale e organizzatore di eventi come Teo Segale. Negli ultimi mesi, da lì, sono passati musicisti come Ben LaMar Gay, Eric Chenaux, Mary Lattimore, Paolo Angeli o i Mourning (A) BLKstar, a riprova di un’attenzione nei confronti di alcune delle musiche più creative, sofisticate e originali in circolazione.
Tutti aggettivi facilmente utilizzabili anche nei confronti dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp – e degli Horse Lords, che da qui passeranno a marzo – che, tra l’altro, ha pure fatto realizzare il primo sold out da quando i due hanno qui inziato a organizzare concerti. Sold out meritatissimo, perché l’ensemble svizzero, di Ginevra, non è solo autore di una manciata di dischi che meritano tutti invariabilmente d’esser scoperti (puntate su Savauge Formes o sull’ultimo We’re Ok. But We’re Lost Anyway del 2021 se non li conoscete), ma sono anche una delle live band più clamorose in cui possiate imbattervi, tanto che non è un azzardo dire che proprio il palco sia la loro dimensione ideale.
Attiva dal 2007, fondata dal contrabbassista Vincent Bertholet, l’Orchestre è una creatura continuamente cangiante (oltre a Bertholet, solo la cantante e violinista Liz Moscarola credo ne faccia parte fin dall’inizio), con una formazione che negli anni è andata continuamente espandendosi e che oggi, quantomeno sul palco, può contare su ben dodici elementi, con doppia batteria, doppia marimba, due chitarre, due violini, contrabbasso, violoncello, tromba e trombone, e con tutti a cantare, anche se proprio quella di Moscarola rimane la voce principale.
Ma se ricca è la strumentazione, non da meno sono le cose che si rinvengono nella loro musica, che è un centrifugato originalissimo e magmatico di ritmi ipnotici che paiono collocarsi a mezza via tra Africa e memorie kraut rock, chitarre percosse e dissonanti che rimandano alle intemperanze No Wave così come alle grattuge degli Ex, florilegi fiatistici che paiono arrivare dai Balcani, partiture per archi tra Penguin Cafè Orchestra e squarci di lirismo improvvisativo, cavalcate dense di groove evocanti gli Stereolab, sottolineate dal rintoccare delle marimbas e spedite tra le stelle da melodie corali che sono veri e propri colpi al cuore.
Una confusione indescrivibile? Tutt’altro! Piuttosto pura gioia per gambe e orecchie, perché se bellissime sono le loro canzoni su disco, dal vivo letteralmente esplodono, trasformandosi in qualcosa a cui semplicemente è impossibile resistere, a patto di non esseri morti, s’intende.
Me li ero persi all’epoca del loro passaggio dell’anno scorso al Novara Jazz festival, è quindi per me erano letteralmente imperdibili. Dai commenti che ho letto e sentito, pare che stavolta abbiano proprio dato il meglio, soprattutto perché ad attenderli in quest’occasione c’era un pubblico dedicato e non quello (a volte) occasionale di un festival. Sta di fatto che l’entusiasmo riversato dal pubblico sul palco è stato assorbito dalla band, che ne ha decisamente giovato tramutandolo in una sarabanda musicale inarrestabile.
Sono un’orchestra eterogenea, con musicisti di diverse generazioni e credo anche dalla formazione diversificata, nella quale, fianco a fianco, convivono vecchi punk con più anima che tecnica e più rigorosi strumentisti presi ad armeggiare con gli spartiti. Il repertorio da cui hanno attinto è stato soprattutto quello degli ultimi due dischi, reso pulsante, vivido, scoppiettante, una vera botta. Una macchina sonora che induce al ballo, ma in cui non manca d’infiltrarsi anche un sentore malinconico, elemento che rende il tutto ancora più profondo.
Le voci svettano verso l’alto con un afflato spirituale e terrigno allo stesso tempo, il ritmo la fa da padrone (e forse soprattutto in questo si sente che l’idea di ciascun pezzo parte dalla scrittura di Bertholet), giovandosi in questo degli intrecci delle due marimbas, mentre gli archi accarezzano o fendono l’aria a seconda dei momenti, i fiati aggiungono colore e le chitarre rumoreggiano e schizzano piccoli, ma fondamentali riff.
L’entusiasmo generale è tale che quando Bertholet annuncia l’ultimo pezzo, il no che viene dalla sala è un boato. Loro appaiono divertiti, ma anche sinceramente emozionati e di fatto sono costretti a salire sul palco nuovamente per ben due bis, prolungando la festa oltre l’ora e mezza di durata e mettendo anche a punto un meraviglioso pezzo corale per quasi sole voci, tra l’altro l’unico con lo stesso Bertholet come cantante principale tra quelli proposti.
Alla fine si può ben dire sia stata una festa, una di quelle che non ti basta una volta, ma alla quale vorresti tornare ogni sera. A tipi come questi, distantissimi dallo stardom e sinceramente interessati solo alla musica, non si può fare altro che ringraziarli di esistere.