Recensioni

Old Crow Medicine Show, Brushy Mountain Conjugal Trailer

ocmsOLD CROW MEDICINE SHOW 
Brushy Mountain Conjugal Trailer
ATO Records
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Nell’attività recente degli Old Crow Medicine Show, gruppo del Tennessee tra i più fantasiosi, dal 1998 della formazione a oggi, nell’imbastardire il suono delle radici con spirito punk e una creatività mai formalista o estetizzante, c’è un aspetto – uno dei tanti – molto curioso, quello del rapporto tra stagionatura dei suoni, sempre riferibili a una dimensione arcaica della musica americana, e l’intensità delle esecuzioni, ogni volta piene, esaltanti e travolgenti come se il patrimonio delle radici a stelle strisce venisse elettrizzato dalla furia incontenibile dei Pogues.

Il bello è che gli Old Crows sono talmente bravi, nonché versati sotto il profilo dei virtuosismi strumentali, da non far apparire questa corrispondenza come una semplice correlazione utilitaristica (uguale a quella di molti altri colleghi occupati nel “rivitalizzare” il suono magari abusato della tradizione ricorrendo a un approccio tutto fuoco e fiamme), bensì come il lavoro, autonomo e reciprocamente denso di significati, su due zone indipendenti del registro linguistico, una consacrata al nudo realismo del retaggio sonoro (da cui il ricorso a violino, mandolino, armonica, percussioni antidiluviane, fisarmonica e persino al guitjo, un banjo a sei corde, assai diffuso nei primi anni del ‘900, col manico da chitarra), l’altra votata al crudo fervore di interpretazioni ogni volta proposte in un bailamme scombussolante di cori, assoli, progressioni strumentali, parentesi di pura improvvisazione, incisi e sventagliate acustiche.

Insomma, una vera e propria corazzata espressiva della quale Brushy Mountain Conjugal Trailer, extended di un quarto d’ora intitolato come il primo brano dell’ultimo, giustamente celebrato Remedy (2014), rappresenta uno degli esiti più maturi, incastonato com’è tra l’anfetaminica apoteosi folk-rock della dylaniana titletrack, lo strepitoso countryrock dalle contaminazioni gospel dell’inedita Mother Church (sembra quasi di sentire i Jayhawks dei primi dischi), una delicata versione live dell’oldtime corale di The Warden e il country-blues paludoso e swingante di una I Done Wrong Blues (in precedenza apparsa, sempre lo scorso anno, sul 45 giri di Sweet Amarillo) da fare invidia a Leon Redbone.

Solo un quarto d’ora, si diceva, ma di grande musica: quello del gruppo, la scorsa stagione vincitore di un Grammy per il «migliore album folk», è, nonostante la precisione sconcertante del suo apparato tecnico, un viaggio inafferrabile eppure tremendamente affascinante nei luoghi della memoria, nei recessi del passato, negli angoli del ricordo. Il fatto di potervisi abbandonare, data la travolgente espressività delle canzoni, pur senza sapere nulla circa l’eredità culturale cui si fa riferimento, non è un difetto ma, caso eccezionale, un’ulteriore dimostrazione dell’efficacia e della straordinaria forza comunicativa dei «vecchi corvi».

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