Prima di mettermi a scrivere del concerto di Nick Cave & The Bad Seeds al Forum di Assago, ho preferito far passare qualche giorno, lasciarlo sedimentare. In questi giorni ne avrete letto probabilmente dappertutto, spesso, soprattutto sui social, anche a sproposito, magari da gente che al concerto non c’era, ma ci ha tenuto lo stesso a farci sapere la sua opinione, lanciandosi a volte in raffronti francamente un po’ sterili e inutili, tipo quelli col contemporaneo show della Marcus King Band, uno bravo, intendiamoci, ma che ne ha di strada da percorrere prima di iniziare a vedere col binocolo uno come Cave che, francamente, piaccia o meno, gioca in tutt’altro campionato, quello dei Bob Dylan per intenderci.
Per quello che riguarda me, poi, sarebbe bastata l’apertura degli irlandesi Murder Capital, protagonisti di un set davvero ottimo, sebbene meno viscerale di un loro concerto abituale, per decidere di scegliere il Forum, ma vabbè, non vorrei dare l’impressione di mettermi anch’io a fare sarcastici paragoni. Come dite? Un po’ già l’ho fatto? Scusatemi allora, andiamo oltre.
Negli ultimi anni, a Nick Cave qualcosa di particolare è successo, e non mi riferisco ovviamente alle tragedie che l’hanno colpito nel profondo, facendolo cambiare, per quello che è dato sapere, in primis come uomo, prima ancora che come musicista e songwriter. È una cosa che a me risulta ancora abbastanza inspiegabile: per anni, decenni anzi, pur facendo dischi eccezionali, di livello altissimo, è rimasto confinato in una dimensione non certo marginale, ma neppure capace di coinvolgere il grosso pubblico. Poi, quasi di punto in bianco, ha iniziato a riempire i palazzetti, facendo sold out con mesi d’anticipo sulla data del concerto e diventanto beniamino di un’audience decisamente più ampia, ma anche generalista.
Niente di male in questo, ma come è stato possibile, visto che questo è coinciso con la pubblicazione di alcuni dei suoi album più oscuri e sì, diciamocelo, difficili da ascoltare? Possibile che il cosiddetto storytelling, per chiunque ormai, sia diventato la cosa più importante, quella che ti permette di raggiungere le masse, anche con opere lontanissime dal pop? Non so, può darsi che sia così, e Cave, da questo punto di vista, di certo è stato abilissimo a renderlo polposo, credo senza malizia e con un alto grado di sincerità, attraverso i dischi, certo, ma anche tramite i suoi ormai notissimi Red Hand Files, un libro quale Fede, Speranza e Carneficina, i film documentari, ovviamente i tour, questi ultimi ormai sempre più un abbraccio inestricabile fra lui e il suo pubblico.
Legittimo guardare a tutto ciò con un certo scetticismo, forse anche con un po’ di cinismo, magari rimpiangendo il Cave maledetto e tutt’altro che ecumenico del passato (sono tanti i vecchi fan che in lui non si ritrovano più), però, a parte il fatto che aspettarsi che gli artisti che amiamo rimangano sempre gli stessi è semplicemente ridicolo, al netto dei gusti personali, andando a valutare le sue ultime opere, difficilmente le si può liquidare come robette senza valore e profondità e, pur volendo fare i detrattori a tutti i costi, è impossibile non riconoscergli il coraggio di aver evitato di adagiarsi nella maniera diventando pantomima di se stesso, continuando invece a muoversi, cercando di rimanere autentico e creativo e facendo cambiare la sua musica secondo i cambiamenti della sua vita.
Credo che, in una certa qual misura, lo stesso Nick Cave del passato si meraviglierebbe nel vedere chi è diventato oggi, di notare la springsteenizzazione dei suoi show, e sia detto ciò in senso assolutamente non dispregiativo. Forse il tour seguito all’uscita di Skeleton Tree aveva dalla sua un’intensità per ovvie ragioni non più replicabile, ma anche stavolta si è assistito a quello che un buon concerto dovrebbe sempre essere: una sorta di abbraccio comunitario, una celebrazione, un rituale che ha ben più punti di contatto con una messa di quanto si voglia ammettere. E più profondamente umanista è la musica messa in scena – chi se non Bruce ce l’ha insegnato in decine e decine di concerti? – e più quest’aspetto diventa preponderante e va a sfiorare il mistico, va oltre il semplice piacere epidermico del sentire una bella canzone. Scava nel profondo.
E Nick Cave oggi è questo, l’officiante di un Rito che dà gioia, ma è capace di attraversare le varie gradazione del sentimento umano, chiaramente non avendo paura di scandagliare i lati più oscuri, quelli che in pochi, come lui, hanno bazzicato così a fondo nella vita. Alle sue spalle, i Bad Seeds, tornati finalmente con l’ultimo Wild God a farsi sentire. I pezzi del nuovo album, in effetti, non era difficile da preventivarlo, dal vivo funzionano benissimo, con un coro a garantire quella qualità gospel che viene fuori in tanti pezzi. La cosa è già chiara ed evidente col terzetto di brani che apre il tutto, Frogs, una fenomenale Wild God, Song Of The Lake, ma pure una O Children recuperata da quel Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus che, per molti versi, è un po’ l’antesignano del nuovo album.
Nick Cave introduce molti dei brani, gigioneggia un po’ ovviamente, scherza e parla col pubblico, si fa artigliare le gambe e non teme, ma anzi cerca l’abbraccio di chi sta nelle prime file. Si butta con foga in una straordinaria Jubilee Street, dalla seconda parte più esplosiva del solito, ma che forse è nulla in confronto con una From Here The Eternity selvaggia e rumorosa, di ferocia inaudita, tra le cose più intense sentite nell’annata tutta, con Cave a dimostrare per l’ennesima volta di essere uno dei migliori performer in circolazione, inoltre in formissima, nonostante gli anni passino anche per lui.
Long Dark Night, tra le nuove canzoni, è la più caveiana del lotto e in combutta con Cinnamon Horses dà vita a una pausa atmosferica prima dell’ululato blues di un’indiavolata Tupelo e di una Conversion innodica, la cui frase «It’s Beautiful! Stop!» tornerà a puntellare, urlata da Cave, à mo di leit motiv, lungo tutto il concerto, da qui in poi. Si apre quindi una lunga parte dedicata a pezzi più recenti, sia dall’ultimo album, che da quello realizzato assieme al solo Warren Ellis, regista anche dal vivo di dei Bad Seeds nei quali, un po’ malinconicamente devo dire, dei membri storici non è rimasto più nessuno. Un minimo d’intensità, devo ammetterlo, in questa fase si perde, pur rimanendo dalle parti di una canzone elegante e avvolgente.
Cambiano ancora le cose con una Red Right Hand sempre ben accetta, ma stavolta tirata un po’ per le lunghe, con una The Mercy Seat senza più la livida violenza di un tempo e con una White Elephant che invece, rispetto alla sua versione in studio, più minimale, qui letteralmente esplode, risultando perfetta per la conclusione del set principale.
Il bis si apre con il bell’omaggio dedicato ad Anita Lane di O Wow O Wow, con belle immagini di lei che danza sulla spiaggia proiettate sullo schermo gigante alle spalle della band – utilizzato molto bene durante tutto il concerto, devo dire. Papa Won’t Leave You Henry è sempre un bel sentire e, a me personalmente, ricorda che la prima volta che vidi Cave dal vivo fu all’inizio degli 90, proprio durante il tour di Henry’s Dream. Il finale sembra consumarsi con una Weeping Song più accelerata della norma, ma che senza la seconda voce di Blixa rimane sempre un po’ monca, ma quando sembra che stia per lasciare il palco, Nick si siede da solo al piano per una toccante, commuovente direi, Into My Arms. È sulle sue note che si chiudono queste due ore e quaranta di concerto straordinarie, nelle quale Cave si è dato per intero, toccando il cuore di chi c’era ad assistere. Enorme.