Mi era già capitato in passato di vederli all’estero – al Primavera Sound nel 2022 e all’End Of The Road di quest’anno, dov’erano stati assolutamente devastanti – ma finalmente i Murder Capital sono approdati anche in Italia con un tour tutto loro, quindi non all’interno di un festival (come quando presero parte a un Ypsigrock all’epoca dell’esordio) o di spalla per qualcun altro (in apertura degli Idles a Rimini più di recente).
Si può ben dire che era ora, ma è evidente che la band di Dublino, almeno fino a questo punto della sua storia, non s’è certo mossa facendosi guidare dalla fretta. Vi basti pensare che tra il primo disco, When I Have Fears del 2019, e il nuovo Gigi’s Recovery, uscito a inizio anno, hanno fatto passare quasi quattro anni, un periodo di tempo, per dire, in cui le altre band del filone post punk, nel quale possono essere tranquillamente inseriti, hanno mantenuto ben altro tipo di marcia (i black midi, ad esempio, hanno esordito dopo, ma sono già a tre album e la stessa cosa vale anche per i Fontaines D.C.).
Risultato? C’è chi è follemente convinto siano una band che si è accodata in un secondo momento e, a conti fatti, quantomeno dalle nostre parti, la loro popolarità pare essere leggermente inferiore a quella di altre band, spesso appunto venute dopo, che attualmente fanno davvero grossi numeri. Il tutto per dire che mi sarei figurato un Magnolia sold out e, invece, nonostante sia comunque bello pieno, non tutti i biglietti disponibili sono stati staccati.
C’è da dire che l’offerta di concerti a Milano in questo periodo è particolarmente ricca e, oltre alle cose del contemporaneo JazzMI, giusto per farvi capire di cosa stiamo parlando, la sera del 2 novembre in città transitavano anche artisti quali Sisters Of Mercy, Drab Majesty, Jungle o Alice Phoebe Lou, forse fin troppe cose per una città che mica ha il bacino di utenti di Londra o New York.
Come che sia, ho il sospetto che la prossima volta, anche grazie al passaparola di chi era qui presente stasera, le cose andranno diversamente, perché di tutta la compagine post punk, i Murder Capital sono non solo tra quelli con le canzoni migliori, ma vi aggiungono la non irrilevante qualità di essere dal vivo un’autentica bomba, insomma identificabili in nessun altro modo se non come imperdibili.
Ad aprire la serata un’altra irlandese, Soak, cantautrice che molto fece parlare di sé ai tempi dell’esordio, senza però poi riuscire a sfondare coi due dischi successivi. Da sola sul palco con chitarra elettrica a tracolla, è stata protagonista di un breve set nel quale ha suonato le sue belle canzoni folk, senza dubbio molto piacevoli e ben scritte ed eseguite, forse però non così peculiari da farle fare il salto oltre la cerchia degli appassionati del genere. Lei comunque ha una bella voce e un bell’approccio nei confronti del pubblico, tutto sommato ben disposto verso i suoi brani intimisti, nonostante sia qui per tutt’altro tipo di musica.
Accoppiata un po’ bizzarra in effetti, ma poco importa, visto che sempre di bella musica si trattava. Certo, basta che i cinque Murder Capital salgano sul palco e facciano partire la nuova Heart In A Hole, pezzo abbastanza melodico e solare per i loro standard, forse parte di un terzo disco in procinto d’uscire, per far svanire il ricordo della sua fugace apparizione.
Del resto lo si è detto, gli irlandesi sono una live band da paura. Mettono subito a segno una doppietta killer quale More Is Less e Return My Head che agita non poco gli animi del pubblico, per poi partire a razzo in una scaletta ben equilibrata tra i pezzi del primo disco e quelli del secondo.
Pulsante e decisa la sezione ritmica formata da Paschal Blake e Diarmuid Breannan e davvero straordinario l’intrecciarsi di chitarre messo a punto da Damien Tuit e Cathal Roper, simbolo perfetto della complessità dei brani della band, tutt’altro che propensa a giocare solo d’attacco, ma anzi piuttosto varia nelle soluzioni, anche se spesso al servizio di atmosfere oscure, cosa che gli dà alla fine un feeling più wave e dark che post punk come lo s’intende ora, ponendoli quasi come una prosecuzione di quella storia iniziata coi Joy Division e transitata per band come Interpol e primi Editors, cosa vista in pezzi clamorosi come le due parti di Slow Dance o nella solennità di molte canzoni dell’ultimo disco.
Chiaramente, gli occhi di chiunque sono puntati su James McGovern, non solo un cantante di vaglia, dalla grande espressività, ma anche un frontman carismatico e spesso imprevedibile, devo dire stasera parecchio sorridente e più posato del solito, cosa che comunque non gli ha impedito di finire in mezzo al pubblico a fare crowdsurfing al termine della potentissima tripletta finale con For Everything, Don’t Cling To Life e soprattutto Feeling Fades, il tutto chiaramente nel delirio generale.
Concerto memorabile. Tenetelo a mente per la prossima volta che passeranno dalle vostre parti.