Foto: Lino Brunetti

In Concert

Motorpsycho live a Milano, 9/5/2016

Chiunque conosca la discografia dei Motorpsycho lo sa bene, sono una band ben difficilmente irreggimentabile univocamente. Nei numerosi dischi pubblicati in oltre venticinque anni di carriera, hanno sperimentato con quasi ogni possibile genere musicale legato al rock, ondeggiando tra psichedelia e hard rock, alternative e prog, non mancando di lambire lidi pop, jazz, le armonie folk-rock di matrice westcoastiana, l’opera rock, persino, per quanto bizzarro possa sembrare, il country. Ovvio che questo eclettismo si sia notato anche in concerto, in una scaletta che ampio spazio ha dato all’ultimo Here Be Monsters – probabilmente il disco più classicamente prog della loro discografia – ma che non ha certo mancato di scandagliare anche ampie porzioni del resto del loro repertorio.

Sono da tempo una delle formazioni europee più amate i Motorpsycho. Non potrebbe essere altrimenti del resto: sono stati capaci di andare oltre gli anni novanta continuando a rinnovarsi, tonfi veri e propri ne hanno fatti ben pochi – per il sottoscritto, giusto l’opera rock The Death Defyng Unicorn è veramente insostenibile – hanno saputo scrivere grandi canzoni, dimostrando tra l’altro grande perizia strumentale e una generosità che ben pochi pari ha nella scena contemporanea. Generosità messa in campo anche in questa serata, in un Magnolia bello pieno dove, praticamente quasi senza pausa, hanno suonato per oltre due ore e quarantacinque minuti.

Non sono per nulla tipi da sveltine Bent Sæther (voce, basso, chitarra, mellotron), Hans Magnus Ryan (chitarra, voce, tastiere) e Kenneth Kapstad (batteria, tastiere). Come potrebbe essere altrimenti, con pezzi dilatati che si trasformano in lunghissime jam improvvisative, in improvvide cavalcate ritmiche dove l’inarrestabile potenza del drumming di Kapstad mette una cornice alle verticalizzazioni strumentali degli altri due, a volte in rincorsa della più acida psichedelia, altre come in preda al sacro fuoco del free-jazz, allo stesso modo in grado di sfociare in passaggi di estrema raffinatezza, come nella cacofonia più rumorista. I pezzi del nuovo album, che erano sembrati forse esageratamente melliflui, dal vivo assumono più vigore, a partire da quella Big Black Dog con cui hanno aperto la serata, così come nella loro bella cover della Spin, Spin, Spin di Terry Callier.

Dicevamo all’inizio della forma mutevole della loro musica: c’è un bello stacco tra le lunghe elucubrazioni strumentali di cui abbiamo appena parlato e gli affondi concisi e metallici di pezzi come On A Plate o Vanishing Point, così come tra queste ultime e la soavità acustica e melodica dei tre pezzi tratti dall’amatissimo Timothy’s Monster (Feel, Wearing Yr Smell, Watersound), ovviamente cantate in coro da un pubblico quasi coi lucciconi agli occhi. Due di queste sono arrivate nel finale, subito dopo la chilometrica e visionaria The Bomb-Proof Roll And Beyond (for Arnie Hassle), ma soprattutto poco prima del colpo di grazia finale con Junior e Feedtime, entrambe tratte dal mitico Demon Box.

Neanche un paio di minuti di pausa e rieccoli sul palco per l’encore, con una Here Be Monsters dronica, sognante, psichedelicamente spaziale, in larga parte affidata ai suoni delle tastiere, quasi a toccare la mezz’ora di durata. Epica vera e propria!

Forse non posso dire che tutto mi sia piaciuto allo stesso modo, ma tanto di cappello signori, band del genere ce ne sono poche in giro. Gran concerto.

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