C’è un concerto di Morrissey a Bologna, in occasione di un tour mondiale il cui segmento europeo l’ha visto esibirsi per ben sei date consecutive nel nostro paese, e questa notizia, di per sé già rilevante (perlomeno per i non pochi seguaci del culto), se ne porta dietro altre tre.
La prima è che l’ex-frontman degli Smiths, secondo le dichiarazioni rilasciate a una rivista spagnola nel mese di ottobre, sarebbe affetto da un’imprecisata forma di cancro, a quanto pare affrontata col solito contegno sprezzante («Se devo morire, morirò. Altrimenti resterò vivo»), e quindi non è dato sapere se, dopo questo giro, ci sarà di nuovo l’opportunità di vederlo on stage. La seconda, invece, viene innescata dalla prima, e sottolinea in misura ancora maggiore, nel caso ce ne fosse stato bisogno, il carattere messianico, autocelebrativo, ritualistico degli show di Morrissey, da sempre intento a mettere in scena un’aperta glorificazione delle proprie ossessioni e del proprio corpo (istruito a proporre una serie di movimenti più da cantante lirico, o da predicatore religioso, che da icona pop) e stavolta assecondato in modo persino più fideistico del solito da platee magari non troppo numerose e nondimeno totalmente succubi degli istrionici coups de théâtre del nostro. La terza notizia, infine, riguarda, dopo anni di tentativi (il primo centro risale alle esibizioni americane dello scorso anno), l’ottenuta messa al bando di qualsivoglia tipologia di alimento carnivoro all’interno delle strutture ospitanti i concerti: un’inibizione forse coerente con le convinzioni dell’artista, vegetariano dall’età di 11 anni, ma un po’ ridicola se estesa (come pare si sia tentato di fare) ai circostanti bar del capoluogo di una regione dove il maiale e suoi derivati spopolano su qualsiasi tavola. Del resto l’animalismo, per Morrissey, dev’essere una cosa maledettamente seria, forse persino troppo, perché paragonare i macelli ai forni crematori di Auschwitz o costringere gli spettatori del concerto a sorbirsi, durante un’aggressiva rilettura della storica Meat Is Murder, le immagini di Farm To Fridge (2011), documentario di Lee Iovino sui metodi disumani utilizzati dagli allevatori per portare gli animali «dalla fattoria al frigorifero», significa da un lato aver perso il senso delle proporzioni, dall’altro aver trasformato la serata (non gratuita ma, al contrario, a dir poco esosa quanto a prezzo del biglietto) nel pretesto di un’evangelizzazione forzata, di fronte alla quale in molti chiudono gli occhi pur non osando protestare.
Non si tratta, qui, di fare le anime belle davanti a qualche maiale sgozzato o a decine di pulcini decapitati, bensì di evidenziare gli oramai innegabili limiti di una performance, nonché di un’espressività artistica, tutta basata sull’esclusione e sul dissenso, e perciò apprezzabile fino in fondo solo da chi condivide ogni scelta di vita dell’autore. Anche il pantheon di soggetti proiettati su maxi-schermo prima dell’ingresso in scena dei musicisti, in un susseguirsi di clip dei Ramones, dei Penetration, di Brian Eno, di Nico, di Charles Aznavour, della poetessa Anne Sexton mentre recita i versi di Waiting To Die, di Chris Andrews, dell’attore Ben Gazzara, fino alle immancabili, amatissime New York Dolls, sembra un modo per contarsi, per riconoscersi e, tanto per cambiare, estromettere quella fetta di mondo che non capisce e non condivide (o che, come recitava il titolo di una vecchia antologia di singoli e b-sidesdegli Smiths, «non ascolterà»). È come se l’angoscia, il senso di emarginazione e la sofferenza da cui sono nate le canzoni degli Smiths si fossero trasformate in un perenne girone di attacchi e filippiche (più o meno condivisibili, non è questo il punto) attraverso cui articolare qualsiasi formula del linguaggio: in un certo senso è l’«essere, violentemente» di cui parlava Jean-Claude Izzo, il sentire profondo e assoluto, alieno a qualsiasi forma di compromesso, ma oggi assomiglia soprattutto al tentativo stanco, da parte di un re in declino, di radunare intorno a sé i propri sudditi.
Largo, quindi, a una continua serie di invettive contro la monarchia britannica (subito sotto attacco grazie al punk-rock cupo e psichedelico di una The Queen Is Dead esaltante nei suoi toni catastrofici), contro i toreri (ma il ralenti del matador infilzato, nella mascella, dalle corna del toro, sulle note di The Bullfighter Dies, è proprio di pessimo gusto), contro la mediocrità di un genere umano dal quale dissociarsi (I’m Not A Man), contro chi continua a rifiutare la superiore sensibilità dell’artista (Earth Is The Loneliest Place), contro la defunta Maggie Thatcher e così via. Non bastano, oltre a quelle già citate, altre due canzoni degli Smiths (un’imbambolata Asleep e una vibrante How Soon Is Now?) per diluire la frustrazione generata da un suono tronfio, enfatico e lugubre, in linea con l’architettura sonora costruita dal produttore Joe Chiccarelli sull’ultimo World Peace Is None Of Your Business (dal quale vengono estratti 8 brani su 17 complessivi), passabile solo quando rievoca con grinta i capitoli migliori della (sopravvalutata) carriera solista di Morrissey, ovvero Vauxhall And I (1994, da cui arriva una rumorosa Speedway) e Your Arsenal (1992, con l’omaggio a Marc Bolan in formato poprock della scintillante Certain People I Know).
Lamentoso, piagnucolante, gonfio di ambizioni letterarie e commiserazione, Morrissey lo è sempre stato, ma in queste serate ha di fatto definitivamente trasformato la poetica degli Smiths e i loro ritratti di dolore adolescenziale in un genere a parte il cui unico protagonista è proprio lui, divo sopra le righe che spersonalizza tutto il resto anche a costo di apparire, come spesso accade, pacchiano e prevedibile (si veda la liturgia, inevitabile, della camicia lanciata al pubblico). Un tempo, ai mostri sacri, si chiedeva perlomeno di eludere l’ovvio. Ora ci si accontenta di acclamarli quando copiano loro stessi. Da qualunque parte lo si guardi, un processo simile ha un nome solo, e si chiama appiattimento culturale.