MARY CHAPIN CARPENTER
The Things That We Are Made Of
Lambent Light/Thirty Tigers
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Era dal 2012 di Ashes And Roses, l’ultimo album inciso per l’indie Zoë dopo anni trascorsi alla corte della Columbia, che Mary Chapin Carpenter non si faceva viva con un disco di canzoni nuove, così alimentando il sospetto di chi ne riteneva la vena compositiva, se non prosciugata, perlomeno inaridita. Ci voleva un produttore di polso come Dave Cobb, eminenza grigia dietro a una decina dei dischi migliori del triennio alle spalle, per convincerla a tornare in studio e per convincerla, soprattutto, a non cambiare, spostare o modificare una virgola del suo stile unico, configurato intorno alle consuetudini di un country-folk morbido e autunnale, intimo, caldo, sussurrato, meditativo e carico di umanità.
Il linguaggio della Carpenter, spesso accusato di immobilismo e ripetitività da parte dei detrattori, è sempre stato, in fondo, una metafora lieve del cambiamento, inteso come componente radicata della psiche umana, ma raccontata con domande e notazioni sulla natura dell’amore e delle sue fragilità, come in una fisiologia tenue dei sentimenti, cesellata attraverso un lessico tanto uniforme quanto magnifico.
The Things That We Are Made Of, oltre a essere il suo disco più riuscito dai tempi di Between Here And Gone (2004), si colloca dal primo ascolto nel novero delle opere maggiori dell’artista di Princeton, New Jersey, dimostrando al di là di ogni ragionevole dubbio quanto la dolcezza della canzone d’autore di Mary Chapin Carpenter, lungi dall’annullarsi nella desolazione della routine, costituisca ancora una radiografia attendibile della lotta (della titolare, sofferente di depressione, e non solo) contro l’apatia, la noia, la riluttanza all’idea di aprirsi agli altri.
Rispetto alla pienezza orchestrale di Songs From The Movie (2014), il suono asciutto, elegante e confidenziale di The Things That We Are Made Of risente in positivo del magistero elettroacustico di Cobb, al quale vanno ascritti l’intersezione di percussioni e pianoforte nella sofferta Deep Deep Down Heart e la delicatezza unplugged (con violino sullo sfondo) della favolosa Hand On My Back, ma al centro della scena, ancora una volta, ci sono le parole, la grazia soprannaturale e la quiete ipnotica della Carpenter, interprete austera e solenne eppure mai accomodante.
Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 388 / Aprile 2016.