Il 25 luglio tocca alla Mark Lanegan Band concludere la rassegna del Tri.P Festival presso La Triennale di Milano, manifestazione tra le più riuscite e musicalmente articolate dell’estate lombarda: un finale che si preannunciava col botto vista la statura artistica del musicista, ma che non escludeva del tutto un tonfo, considerando le derive facete dell’ultima parte di carriera. Tutto sommato, la serata è stata un successo con un pubblico numeroso ed eterogeneo composto da tatuati nostalgici dei nineties e da chi in generale è stato convinto dalla qualità messa in campo dagli organizzatori del Tri.P Festival, perchè, nonostante un paio di occhiali da vista, la silhouette scura di Lanegan irradia il solito magnetico carisma e la sua voce continua a risvegliare spettri di antichi blues, come accadeva quando cantava per mezz’ora e poco più senza staccare mai le mani dal microfono o proferire parola che non facesse parte di una canzone, stravolgendo l’anima chi lo stava ad ascoltare.
Oggi l’artista mostra maggiore mobilità e disinvoltura, snocciola un paio di Thank You e perfino un Goodnight in chiusura e la durata dei suoi concerti rientra nella norma (1h e 30m circa quello di stasera): forse sintomi di un benessere che tuttavia pare andare in direzione inversamente proporzionale alla qualità dei suoi ultimi dischi, in particolare dell’ultimo Gargoyle. Insomma le nuove canzoni non sembrano all’altezza del vecchio repertorio (basta ascoltare l’aria melodrammatica di Goodnight To Beauty per rendersene conto), la band è una macchina perfetta che gira a medio regime senza brusche frenate o manovre azzardate, ma è più che sufficiente l’emozione di quella voce unica e profonda per salvare la serata, soprattutto quando torna ad interpretare meraviglie come One Way Street o Bleeding Muddy Waters.
Si comincia con una discreta Death’s Head Tattoo potente quanto basta, ma la scurissima The Gravedigger’s Song è decisamente meglio e la nervosa Hit The City fa salire ulteriormente la temperatura dello show, mentre le interlocutorie Sister, Nocturna e Emperor introducono senza particolari brividi l’affascinante poesia di Deepest Shade, il brano a firma Twilight Singers che Lanegan spesso interpreta. L’assalto elettrico di Riot In My House fa battere le mani a chi ha ancora in mente gli Screaming Trees e ci vogliono ballate come No Bells On Sunday, Harborview Hospital e la splendida Come To Me per apprezzare il Lanegan più ispirato e tormentato, lo stesso che nei bis spezza il cuore a tutti gli spettatori con una fantastica One Hundred Days e con la cover elegante e notturna di Atmosphere dei Joy Division. Qualche sintetizzatore di troppo, un drumming a volte un po’ leggero, insomma tanta luce e qualche ombra, ma comunque nessun rimpianto per un concerto come quello di Mark Lanegan, un artista ancora capace come pochi altri di condividere i propri demoni con un pubblico sempre attento e sull’orlo della commozione.